Il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Lamezia Terme parte civile nel processo per la morte dell’avvocato Francesco Pagliuso. È questa la decisione presa lo scorso 12 febbraio dall’organo presieduto da Antonello Bevilacqua, che ha deciso di chiedere i danni agli autori del delitto che ha sconvolto la città nel 2016, «nell'interesse dell'intera avvocatura lametina». L’udienza preliminare per Marco Gallo, il 33enne imputato per l'omicidio dell'avvocato Francesco Pagliuso, è stata fissata per il 19 febbraio, dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal procuratore capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dal pm Elio Romano, che contestano a Gallo l’aggravante mafiosa: l'omicidio del legale sarebbe infatti maturato nell'ambito dello scontro tra le famiglie Scalise di Decollatura- Soveria Mannelli e i Mezzatesta. Ma viene anche contestata l'aggravante di «aver agito con premeditazione - si legge nell'ordinanza di custodia cautelare - concretizzatasi nello studio delle abitudini della vittima, nel monitoraggio degli spostamenti e nella effettuazione di vari sopralluoghi compiuti nelle giornate antecedenti all'omicidio». Gallo, che per la Dda nasconderebbe l’identità di killer professionista sotto la maschera di un insospettabile consulente, è accusato di aver ucciso, oltre che Pagliuso, anche il dipendente delle ferrovie Gregorio Mezzatesta e il fruttivendolo Francesco Berlingieri, omicidi per i quali, in Corte d’Assise, sono già in corso due distinti processi.

Il legale fu ucciso il 9 agosto di tre anni fa con un agguato dalle modalità tipicamente mafiose: tre colpi al collo, freddato nel cortile di casa mentre stava scendendo dalla sua auto. Un delitto ripreso dalle telecamere di sorveglianza, installate da poco tempo, che hanno immortalato un uomo uscire da un cespuglio, avvicinarsi alla sua auto e sparare non più di tre colpi in direzione dell’avvocato, morto sul colpo. Il killer si è introdotto nella proprietà di Pagliuso praticando un foro sulla recinzione che circonda il casale restaurato in via Marconi, dove viveva da solo da poco tempo, dopo essersi trasferito a Lamezia Terme dal suo paese di nascita, Soveria Mannelli. Le modalità fin da subito hanno fatto pensare ad un killer professionista, capace di compiere una vera e propria esecuzione. Pagliuso, 43 anni, una carriera brillante, segretario della camera penale, aveva difeso molti imputati dei più importanti processi di ‘ ndrangheta della provincia di Catanzaro e non solo, da “Andromeda” passando per “Black Money” e “Perseo”. Ma non solo: a giugno di quell’anno era riuscito a far annullare con rinvio dalla Cassazione l’ergastolo per Domenico e Giovanni Mezzatesta, condannati per un duplice omicidio immortalato dalle telecamere di un bar e aveva difeso in passato Ida D’Ippolito, ex senatrice di Forza Italia.

A chiarire le circostanze della sua morte la recente operazione della Dda “Reventinum”, dalla quale è emerso che Gallo era al servizio degli Scalise, una delle cosche dell’area montana del Lametino. Gallo, secondo le indagini, si sarebbe dunque appostato davanti casa della vittima, «a seguito di vari sopralluoghi e appostamenti», per poi, «una volta avvicinatosi allo sportello con finestrino aperto lato guida della Volkswagen Touareg» dell’avvocato, esplodere «numerosi colpi di arma da fuoco». Un’esecuzione che, per la Dda, sarebbe stato il prezzo da pagare per vendicare la morte di Daniele Scalise, di cui il gruppo criminale riteneva responsabile Domenico Mezzatesta, «legato all’avvocato Pagliuso da un rapporto personale molto stretto - si legge negli atti d’accusa - tanto da essere aiutato dallo stesso avvocato nel periodo della sua latitanza». Ed è stato proprio durante quel periodo di fuga che l’omicidio di Scalise è stato programmato ed eseguito. Qualche anno prima di essere ucciso, l’avvocato Pagliuso è stato anche vittima di un rapimento, esempio perfetto, secondo l’accusa, della «capacità criminale» e della «tracotanza della cosca Scalise» : nella seconda metà del 2012 l’avvocato, «accusato di un minor impegno professionale e di aver commesso degli errori nella linea difensiva a tutela di Daniele Scalise», fu «privato della libertà personale, incappucciato e condotto con la forza da Lamezia Terme in un bosco della zona montana del Reventino dove veniva costretto a stare, legato ed impossibilitato a muoversi liberamente, dinanzi ad una buca scavata nel terreno con un mezzo meccanico. Il tutto - si legge ancora - al fine di piegare l'avvocato alla volontà della cosca specie con riferimento alle determinazioni e al comportamento da tenere nel procedimento a carico di Daniele Scalise». Un vero e proprio sequestro di persona portato a termine «con l'aggravante mafiosa», contestato a Pino Scalise, che in un secondo momento, non avrebbe esitato «a reiterare ulteriori minacce raggiungendo l'avvocato Pagliuso direttamente nel suo studio a Lamezia Terme».