Non è stato davvero un fulmine a ciel sereno anche se la mazzata ha colto il diretto interessato, Mario Calabresi, sino a ieri mattina direttore di Repubblica, del tutto alla sprovvista. Lo fa capire lui stesso, annunciando con un tweet la rimozione dalla guida del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari: «Dopo tre anni finisce la mia direzione di Repubblica. Lo hanno deciso gli editori». Più tardi, smentendo le voci che lo davano già da qualche tempo in corsa per la guida di Google Italia, precisava: «Quell'opzione non è mai esistita. Fino a questa mattina ho lavorato a riorganizzare Repubblica ». Un colpo improvviso, inatteso e secondo l'ex direttore molto, molto basso.

Eppure le avvisaglie c'erano e non da pochi giorni ma da mesi. Dall'estate scorsa, quando il restyling del giornale si era rivelato largamente insoddisfacente, le voci su un imminente cambio della guardia erano risuonate spesso, riemergendo a più riprese. Perché allora il licenziato si sentiva invece al sicuro? Probabilmente perché quelle voci erano state smentite direttamente da Marco De Benedetti, figlio di Carlo e attualmente presidente del gruppo editoriale Gedi, che con il direttore aveva sempre avuto un ottimo rapporto fiduciario.

Poi perché, nonostante le stroncature diluviate sulla nuova veste del quotidiano, i risultati sembravano al timoniere confortanti. Li illustra lui stesso, nei suoi amarissimi tweet rivendicando il merito di aver dimezzato l'emorragia di copie dal 14% al 7%. Sui social è ovviamente esploso un florilegio di battute sarcastiche ma lo stato della carta stampata è effettivamente questo e la competizione fra le grandi testate è a chi perde di meno non a chi guadagna più copie.

Contro Calabresi, molto criticato all'interno della redazione anche per l'abitudine di farsi vedere, pare, piuttosto poco, ha certamente giocato l'ostilità di Carlo De Benedetti, che a differenza del figlio non ha mai apprezzato la direzione del successore di Ezio Mauro, giudicata debole e priva di personalità giornalistica. Formalmente l'ingegnere non ha più voce in capitolo sulle scelte di Gedi, avendo lasciato il timone ai figli. Nei fatti le cose sono probabilmente, anzi evidentemente, meno nette. E' possibile però che un peso lo abbiano avuto anche considerazioni più politiche. Calabresi aveva indirizzato il giornale in una campagna contro l'attuale maggioranza, e in particolare contro la Lega, non dissimile da quella durissima, lanciata da Mauro contro Berlusconi o dallo stesso Scalfari contro Craxi nella prima Repubblica. E' possibile che quella campagna molto strillata sia parsa eccessiva al cda di Gedi, o almeno che non sia stata apprezzata la maniera di condurla.

Al posto di Calabresi andrà, non appena il cda avrà formalizzato la scelta, Carlo Verdelli, giù vicedirettore del Corriere della Sera con Paolo Mieli, direttore della Gazzetta dello Sport, impegnato anche in Rai. Verdelli è un formidabile giornalista ' di macchina'. La sua nomina rivela la decisione di affidare l'ammiraglia di Gedi a un capitano che starà sul ponte a tempo pieno e sulla cui perizia gli ' armatori' non avranno dubbi. Non dice invece nulla sulle eventuali correzioni di rotta. Per capire se quelle ci saranno o meno bisognerà aspettare i fatti. Mario Calabresi ha alle spalle una carriera folgorante e velocissima, sulla quale è difficile non sospettare che abbia pesato il nome e qualche senso di colpa.

E' figlio della vittima più eccellente e nota del terrorismo politico in Italia dopo Aldo Moro, il commissario Luigi Calabresi, ucciso da un commando nel 1972. Per quel delitto, dopo una lunga e tormentata vicenda processuale iniziata 16 anni dopo il delitto sono stati condannati due dirigenti e un militante di Lotta continua, tra i quali Adriano Sofri, principale dirigente del gruppo extraparlamentare che quando Mario Calabresi entrò in carica era collaboratore di Repubblica e che chiuse la collaborazione dopo la nomina del figlio di quella che, secondo una verità processuale sempre negata dai condannati, era stata la sua vittima.

Nei primi anni' 70 Calabresi fu accusato di essere responsabile o co- reponsabile della morte dell'anarchico Pino Pinelli, precipitato dal locale della questura di Milano in cui veniva interrogato ( anche se a termini di legge quell'interrogatorio era illegale, essendo scaduti i termini del fermo). Il commissario Calabresi dirigeva l'interrogatorio, anche se al momento della tragedia pare che fosse fuori stanza. I vertici della questura, incluso il commissario, affermarono che Pinelli si era suicidato perché erano state dimostrate le sue responsabilità nella strage di piazza Fontana, avvenuta pochi giorni prima. Prima di lanciarsi dalla finestra, raccontarono i dirigenti della Questura, l'anarchico aveva urlato ' E' la fine dell'anarchia'.

Non era vero niente e Pinelli con la strage non c'entrava niente. Lotta continua in particolare ma tutta la sinistra avviarono una campagna violentissima contro Calabresi, in parte con la deliberata intenzione di costringerlo a denunciarli: era l'unica strada per portare il caso della morte di Pinelli in tribunale. A salvare la questura fu la versione ridicola accolta dalla corte: Pinelli in effetti non si era suicidato, era stato vittima di un ' malore attivo'. A quella campagna parteciparono molte tra le future stelle del giornalismo e in generale dell'establishment italiano. Si portarono dietro i sensi di colpa per una campagna effettivamente molto dura, che ritenevano avesse contribuito ad armare le man degli assassini di Calabresi. Mario, classe 1970, arrivò all'Ansa nel 1998. L'anno dopo era a Repubblica e subito dopo alla Stampa, come inviato speciale negli Usa. Un passaggio lampo prima di tornare a Repubblica come caporedattore centrale e corrispondente da New York prima di approdare nel 2009 alla direzione della Stampa, lasciata per prendere in mano quella del principale quotidiano Gedi nel 2016.

Ma se i sensi di colpa possono aver giocato in parte a suo favore nella fulminea carriera, non hanno pesato affatto nel licenziamento. L'unico a citare i natali dell'ex direttore è stato Vittorio Feltri, in un commento un po' assurdo in cui lo definisce ' orfano due volte'. Difesa del licenziato o strada obliqua per accusarlo di aver fatto carriera in quanto orfano?