È comprensibile  che sulla vicenda dell’autorizzazione a procedere per Salvini scattino dei riflessi condizionati. Comprensibile ma non giustificato.

Comprensibile perché quando la banalizzazione è ormai assurta a valore e quando il dibattito politico si è trasformato nell’equivalente di latrati primordiali è difficile distinguere e ragionare.

E rischia di essere un’impresa vana quella di riconoscere la differenza tra la vecchia autorizzazione a procedere dell’art. 68 nei confronti dei parlamentari e quella prevista dal nuovo art. 96 e dalla legge costituzionale 1/ 89 con riguardo ai ministri.

E invece la differenza c’è ed è enorme. La vecchia autorizzazione parlamentare, giusta o sbagliata che fosse, muoveva dal presupposto che le Camere dovessero tutelarsi contro ingerenze indebite della magistratura, di difendersi dal fumus persecutionis.

La nuova disciplina della responsabilità penale dei ministri si muove su tutt’altro piano.

Non presuppone un giudizio sull’azione dei magistrati ( che ognuno è libero di valutare come crede), ma una valutazione di merito che il legislatore costituzionale vuole, a torto o a ragione, sottratta alla magistratura e assegnata alla Camera di appartenenza del ministro.

E, a questo proposito, merita segnalare che non si può essere cultori della Costituzione più bella del mondo e, contemporaneamente, detrattori del legislatore costituzionale ( che peraltro, in questo caso, ha mitigato precedenti soluzioni, ancor più “protettive” della politica, originariamente previste dall’art. 96 della Costituzione).

Insomma l’idolatria selettiva della Carta può comprendersi solo in questo contesto degradato dello scontro tribale, nel quale riflettere e argomentare è diventato motivo di disprezzo e la coerenza un optional pre- moderno. Altro che sonno della ragione. Qui siamo alla morte dichiarata.

Comunque, il legislatore costituzionale ha ritenuto che gli atti dei ministri non siano perseguibili penalmente se l'inquisito abbia agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” ovvero “per il perseguimento di un preminente interesse pubblico” nell'esercizio della funzione di Governo. Da ciò derivano alcune conseguenze molto chiare.

La prima è che, a differenza del Presidente della Repubblica, i membri del governo non godono di un’immunità generale nell’esercizio delle proprie funzioni. Non esistono “atti politici” insindacabili in astratto. Esistono solo valutazioni in concreto per ogni singolo atto per il quale si viene perseguiti. Non è una traguardo da poco. Nello stato costituzionale nessuno è legibus solutus. Non esiste la ragion di stato che a priori giustifichi qualunque cosa. E a ben guardare non esiste nemmeno per il Presidente della Repubblica, sempre responsabile per “attentato alla Costituzione” e per “alto tradimento” e i cui atti sono comunque condivisi dai ministri proponenti che si assumono una precisa responsabilità nel controfirmarli ( art. 89 Cost.).

La seconda conseguenza è che il legislatore costituzionale ha compiuto una scelta coerente nell’assegnare al Parlamento la responsabilità di pronunciarsi “insindacabilmente” sull’autorizzazione. Perché in questo caso non si tratta di applicare una legge, di verificare la ricorrenza in concreto di un astratto parametro giuridico ( per quello sarebbe bastato un giudice, ordinario o speciale, o addirittura la Corte costituzionale, com’era prima), ma si tratta di definire cos’è “interesse dello stato” e cos’è “un preminente interesse pubblico”.

Ora i nostri riflessi idealistici ci portano spesso a pensare che l’interesse pubblico sia qualcosa che esiste in natura, un dato bell’è pronto che bisogna solo “accertare”. Ma la realtà non è questa. L’interesse pubblico non è preconfezionato. L’interesse pubblico è ciò che “la politica”, come espressione delle scelte democratiche, definisce come tale. E di cui si assume la responsabilità… politica. Certo, alcune “definizioni” di interesse pubblico sono state già compiute e sono desumibili dalla Costituzione o dalle leggi. Ma il legislatore costituzionale del 1989 ha ritenuto, ci piaccia o no, che ci sono casi in cui quell’interesse non è predefinito, ma debba essere oggetto di una valutazione in concreto dell’organo politico per eccellenza, una delle Camere, perché è ciascuna delle Camere, l’una distintamente dall’altra, che può e deve apprezzare l’interesse pubblico. E se l’altra non fosse d’accordo? Può sempre sfiduciare il governo. E se il governo non fosse d’accordo? Può sempre dimettersi. Perché l’interesse pubblico è il cuore della politica e dell’indirizzo politico.

Si può immaginare un modello diverso ( quello di prima ad esempio, o uno completamente nuovo)? Certamente. Basta cambiare la Costituzione. Ma fino a quel momento nessuno, nemmeno Salvini, può sottrarsi alla competenza della Camera ( o in questo caso del Senato) di assumersi la responsabilità di dire se i suoi atti come ministro fossero a tutela di un prevalente interesse pubblico o di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante.

E’ la democrazia bellezza! Quella di cui tanti si riempiono la bocca oggigiorno, senza saper spesso di che stanno parlando.

Da qui l’ultima conseguenza. Il voto è insindacabile perché è un voto eminentemente “politico”. Così come politiche non possono che esserne le ripercussioni. Quali che esse siano. Ed è forse per questo che sono tutti in fibrillazione.