Brega Massone fu «vittima» di una «semplicistica enfatizzazione mass- mediatica di brani di conversazione». E non voleva uccidere i pazienti che ha operato, proprio in virtù di quell’ «ego smisurato» che l’accusa ha utilizzato contro di lui come prova del contrario. Sono durissime le valutazioni della seconda sezione della Corte d’assise d’appello di Milano, che ad ottobre scorso ha ridotto le condanne inflitte al cardiochirurgo della clinica “Santa Rita” Pierpaolo Brega Massone e al suo vice Fabio Presicci, riqualificando il reato da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. I due erano accusati per la morte, rispettivamente, di quattro e due pazienti in sala operatoria.

Brega Massone, che nel primo appello è stato condannato all’ergastolo, si è visto ridurre la condanna a 15 anni, mentre Presicci da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi. Una sentenza alla quale si è arrivati dopo i dubbi sollevati, a giugno 2017, dalla Cassazione, che ha annullato con rinvio la condanna del primo processo d’appello: per i giudici non si poteva parlare di dolo per le vittime, uccise, secondo l’accusa, da «interventi inutili», effettuati solo per «monetizzare» i rimborsi del sistema sanitario nazionale. Un concetto che il procuratore generale Massimo Gaballo ha ribadito anche nella requisitoria dell’appello bis, definendo gli imputati come «perfettamente consapevoli di non poter dominare il rischio post operatorio». Un’immagine che a Brega Massone è valsa, negli anni, la qualifica di «chirurgo killer». Questo ruolo, secondo il suo avvocato, Nicola Madia, sarebbe stato «costruito accuratamente» dai media, come «un abito su misura, l'abito di un mostro». Tanto che perfino la Rai, nel 2014, aveva programmato per la prima serata di sabato una fiction sul caso, dal titolo «Operazione clinica degli errori». Con al centro di tutto «il mostro» Brega Massone, nonostante le condanne non ancora definitive.

Le motivazioni della seconda sentenza d’appello, però, fanno emergere un quadro molto più morbido rispetto a quello rappresentato, negli anni, da accusa e giornali. «Nessuna delle prove raccolte supporta l’ardita ipotesi di morti volontarie» per i pazienti che non sono sopravvissuti agli interventi, «ovvero del loro decesso accettato e messo in conto come tale. Nessuna prova è riuscita a dimostrare - si legge - il dolo eventuale, per la palese insussistenza, in ciascuno dei quattro casi clinici esaminati, di una disponibilità interiore degli imputati, assimilabile ad un atteggiamento psicologico volontaristico, ad accettare l’evento negativo, poi verificatosi». Insomma, «è insostenibile» che il rischio di morte dei pazienti sia stato messo in conto e «accettato» dai medici. Per i giudici è dunque necessario escludere, «con convinzione», la sostenibilità giuridica del dolo, anche quello eventuale, in quanto «in tutti i casi esplorati la complessa realtà volitiva di quest’ultimo coefficiente psichico è, in definitiva, svaporata nella mera accettazione del rischio: espressione tra le più abusate, ambigue, non chiare, dell’armamentario concettuale e lessicale della materia in esame». Un’espressione «di maniera» e «inutile» per discriminare fra dolo e colpa cosciente, laddove è invece necessario «andare alla ricerca della volontà».

Nel caso delle morti avvenute nella clinica Santa Rita, scrivono i giudici, «l’indagine si è fermata alla rappresentazione del rischio senza neppure affrontare l’accettazione di un definito evento e, men che meno, la ricerca della volontà o meglio di qualcosa ad essa equivalente nella considerazione umana». E, forse, non è un caso, aggiungono, che tale ricerca «infruttuosa» porti «ad un approdo contrario» a quello ipotizzato dalle accuse. Ma le critiche mosse dai giudici nella sentenza vanno oltre sul piano generale: anche di fronte al «narcisismo» o alla «spregiudicatezza nella sperimentazione scientifica», alla «sete di guadagno o altre spinte emotive» estranee all’esclusivo interesse del malato, sottolineano, «in ogni caso la morte del paziente è sempre, per il medico, un fallimento professionale prima che umano» che, a lungo andare, vanifica «l’obiettivo egoistico perseguito».

Il processo e la sua risonanza mediatica, sottolineano i giudici, si sono soffermati soprattutto sulla figura di Brega Massone, dipinto «con la massima severità quale individuo più che come chirurgo». Un medico al quale, anche nel corso del processo, sono state «riconosciute abilità tecniche» pur «ritorcendogliele contro». Ma la spinta «all’eccessivo interventismo» del cardiochirurgo è, principalmente, «sorretta dall’autostima, dalla consapevolezza di sé, da orgogliosa presunzione e perfino megalomania», motivo per cui «non può essere liquidata come improponibile la prospettazione difensiva che pone ( ragionevolmente) in dubbio il requisito della rappresentazione e, vieppiù, della volizione». Perché mai rischiare la propria fama, la propria sete di affermazione - si chiedono i giudici - perché opacizzare il proprio successo personale rappresentandosi - ed accettando - la morte dei pazienti, negazione stessa dello scopo perseguito?. Sarebbe stato «illogico e irrazionale», affermano ancora, «perché anche il più cinico e spregiudicato degli operatori si avvede che l’obiettivo di profitto eventualmente perseguito verrà frustrato e negato proprio in ragione del susseguirsi di eventi infausti provocati da interventi inutili o devianti». Brega Massone «è il primo della classe» e la sua vanità non sarebbe disgiunta «dalla voglia di fare bene». Una «passione maniacale» ed uno «stakanovismo» su cui anche i colleghi ironizzano. L’interesse economico e di profitto personale della professione «tanto amata» c’è, «ma non necessariamente in contrapposizione e a sacrificio dei pazienti».