L’animale che mi porto dentro di Francesco Piccolo ( ed. Einaudi) non smette di far discutere, soprattutto chi ha a cuore la critica ai modelli, agli stereotipi, ai ruoli che riguardano sia gli uomini che le donne. Il romanzo di Piccolo, tra gli autori televisivi e di fiction più affermati del momento, sembra infatti tornare indietro a un secolo fa riproponendo un’idea del maschile come “bestiale”, come violento. Ma lo fa con furbizia, quasi chiedendo scusa, strizzando l’occhio alle donne. E’ come se dicesse: scusate, ci ho provato, ma sono fatto così. In una intervista a Simonetta Fiori, pubblicata su Repubblica, lo dichiara in maniera esplicita: «Io per una vita ho tentato di separarmi dalla logica maschile del branco, dal modello paterno che introietta sesso e arroganza, dal bullismo dell'adolescenza carico di rabbia, ma vi sono riuscito solo in minima parte. Sono diventato scrittore per ribadire la diversità dagli altri maschi e soprattutto da quel me stesso che era uguale agli altri maschi. Ho inseguito il miraggio della sensibilità, ma resto la merda che ero». Piccolo non si ferma a se stesso, perché racconta la sua condizione come emblematica dell’intero genere maschile. Ma non tutti ci stanno a venire chiusi in questo schema. Lo scrittore Paolo Di Paolo sicuramente no. «L’animalità - se così vogliamo chiamarla - ci riguarda in quanto specie umana, famiglia degli ominidi, ordine dei primati. Poi esiste qualcosa che chiamiamo – arrovellandoci da millenni sulle specifiche – cultura. Se dovessi ricondurre me stesso, in quanto animale, alle tre o quattro necessità/ istinti basici, biologici, mi limiterei a una parte dell’autoritratto complessivo. Ero un neonato che mangiava, dormiva, defecava, sì, certo, come ogni cucciolo di mammifero e non solo, ma poi sono diventato qualcos’altro – una persona. Mi sento più della famiglia umana che della famiglia “maschi”. Ho un pene, e dalla pubertà conosco il desiderio sessuale. Ma “essere uguale agli altri maschi” che cosa vuol dire? Il pene mi rende uguale agli altri maschi. La gestione del mio desiderio, dei rapporti con l’altro sesso, le scelte che faccio non le faccio né per “ribadire la diversità dagli altri maschi” né per confermare una comunione con loro. Dunque la logica del branco non mi interessa, l’ho sfiorata nella tarda infanzia, nella prima adolescenza ( talvolta dominando, talvolta essendo dominato), ma diventare adulti mi pare sia il contrario di far parte di un branco».

Lea Melandri, femminista e scrittrice, parla di “captatio benevolentiae”: «Detta in maniera spicciola commenta - quella di Piccolo mi sembra una furbata. E’ come se Piccolo dicesse “ce la ho messa tutta, ma non sono riuscito a vincere quel grumo di arroganza, prepotenza e violenza che abita dentro di me”. Insomma opera un vero e proprio capovolgimento tra aggressore e vittima. Diventa lui la vittima di un maschile definito come bestiale e naturalizzato. Si propone cioè una idea di maschile non come costruzione storica. Dopo un secolo di femminismo dovrebbe essere chiaro come maschile e femminile sono costrutti che si sono formati storicamente e come tali vanno messi in discussione. E la storia ci dice che il maschile e il femminile si sono creati all’interno di un potere esercitato da un sesso sull’altro. Anche io ho avuto a volte la tentazione di dire che non c’è niente da fare. Ma invece oggi, non solo nel femminismo, osservo una nuova consapevolezza rispetto ai modelli e ai ruoli».

Lea Melandri inizia la sua riflessione negli anni 70, nel femminismo dell’autocoscienza, quando lo sforzo era quello di andare a fondo, di analizzare e cambiare prima di tutto se stesse. E’ il legame tra femminismo e psicoanalisi, tra coscienza e inconscio. Ma anche su questo Piccolo spiazza. La profondità secondo lui non aiuterebbe perché nel fondo c’è la bestia. Quindi meglio vivere nella superficialità. «Non capisco - commenta Di Paolo - cosa intenda Piccolo per superficialità: vorrebbe che la sua presunta superficialità fosse la mia? Ognuno è superficiale a modo suo, ognuno è profondo, se lo è, a modo suo. “Il desiderio di essere come tutti”, come recita il titolo di un suo romanzo, non mi torna: è falso egualitarismo, è snobismo rovesciato, è il chiamare in correità una folla anonima, è il cercare un alibi. Si può, invece, si deve pensare a una critica, a un sovvertimento di certi modelli che il maschio introietta. Se un bambino dice – nel 2019 – “lei non capisce perché è femmina”; se un adolescente dice a un altro ( pretendente, diciamo pure alla maniera dei tacchini): “Lei è mia”, io ho il dovere – come umano e come maschio – di farmi delle domande». Un lavoro che il femminismo ha iniziato da lungo tempo: «Sì - spiega Melandri - il femminismo è stato il primo che ha portato alla luce la non naturalità di ciò che prima stava chiuso nel privato e che attiene ai ruoli e alle identità. Ma questo è accaduto nell’ultimo secolo, un tempo relativamente breve per potere pensare che non ci siano forti resistenze. In fondo, quella di Piccolo anche se in maniera furba, come dicevo prima, è una forma di resistenza e di ribaltamento. Anche quando parla del desiderio “bestiale” nei confronti delle donne dimentica come sia stata la donna, nella cultura occidentale, ad essere identificata con la natura e la sessualità. Ma facendo così Piccolo è come se non volesse modificare nulla. Strizza l’occhio alle donne, per far accettare il suo discorso. Del resto l’attaccamento al femminile come valore è stato tipico anche di alcune fasi del femminismo. Pensiamo all’emancipazionismo che poneva la maternità come requisito per la conquista di una piena cittadinanza. O il pensiero della differenza che considera il femminile come un valore di per sé, un di più su cui fondare una nuova gerarchia di valori. O quando a sinistra si propone “il lavoro di cura” come un modello di solidarietà sociale. Anche per noi donne insomma è stato ed è difficile prendere le distanze dall’identità che abbiamo ereditato».

Decostruire il genere significa riconoscere i tratti in comune ma anche affermare la propria individualità soprattutto rispetto a un modello che si critica. Ed è qui che Paolo Di Paolo diventa particolarmente determinato: «I tratti in comune – di genere, di cultura, di storia sociale – non dovrebbero farci pensare mai agli altri come a categorie astratte. “Sono un uomo” è una frase che riassume la complessità della nostra esistenza? No. E così vale per “sono una donna”. Non basta nessuna categoria. Francesco Piccolo gioca, scherza, fa sempre questo. Ma non sposta mai avanti il discorso. Dà di gomito ai maschi dicendo: pure voi vi scopereste tutte quelle che vedete, eh? Sicuro della risposta. E in un certo senso dà di gomito pure alle donne che lo leggono: voi lo sapete che siamo degli animali e vorremmo scoparvi tutte, no? Mah. Io lo trovo abbastanza imbecille come ragionamento. Aggiungo che leggendo Piccolo ho pensato anche: ho trentacinque anni, vorrei non invecchiare così». In questi anni anche grazie al lavoro fatto dal gruppo maschile plurale sono stati fatti tanti passi avanti, si sta costruendo una nuova consapevolezza anche tra gli uomini. E anche nella nuova generazione di femministe il tema della critica alle identità e ai ruoli è diventato un punto centrale. «Ricollego la realtà di Non una di meno - dice Lea Melandri - agli anni 70, per aver messo a tema i nessi tra sessismo e razzismo, tra economia e rapporto tra i sessi, e per l’apertura alle nuove soggettività. Nel documento di convocazione della manifestazione del 25 novembre contro la violenza sulle donne, c’era scritto: noi vogliamo trasformare il mondo. Mi sembra un ottimo obiettivo». La storia del cambiamento nel rapporto tra i sessi va avanti, piaccia o meno a Piccolo.