Che cento fiori fioriscano, gridava Mao dalla Città Proibita. Quando lo fecero, li deportò in massa nei campi di rieducazione. Cento piazze si riempiano, è l’immagine che rimanda il Paese del “sovranismo psichico», come l’ha battezzata il Censis con un ghirigoro particolarmente psichedelico. A parte ogni altra considerazione, la differenza è che a Pechino c’era un Grande Timoniere che governava una barca con sopra un miliardo di persone seguendo una bussola precisa: il potere. Nell’Italia del governo gialloverde i Timonieri sono almeno due e litigano un giorno sì e l’altro pure, mentre chi è fuori da quel perimetro è una massa in cerca d’autore: una figura che rassicuri e accenda gli animi. Senza averla tuttavia ancora trovata.

Hanno cominciato le signore di Roma stanche della sindaca Raggi; hanno proseguito le “madamine” torinesi stanche del rifiuto alla Tav. Il bello è che c’erano anche i leghisti. Hanno continuato i sostenitori del no alla Torino- Lione e fan della decrescita felice. Oggi insisteranno i seguaci di Matteo Salvini pronti a impossessarsi dell’ex Roma- ladrona divenuta ora meta ambita e legittimante. Proseguiranno a metà della prossima settimana i piccoli e medi imprenditori, assiepati a Milano per dire che la “manovra del popolo” non li convince, anzi li deprime.

Le cento piazze italiane sono la riproposizione in miniatura delle Signorie e dei Principati medievali: ognuna per conto suo, ognuna espressione di un disagio e di ambizioni specifiche, ognuna vogliosa di farsi spazio a spese dell’altra. Sono gli occhi caleidoscopici che fissano la politica e chi la incarna, voltandosi ora di qua ora di là, chiedendosi se quelle figure che si agitano nei Palazzi delle istituzioni si preoccupano anche di loro oppure solo della virtualità dei selfie autocelebrativi.

Le cento piazze sono l’emblema di una politica che si è frantumata, che dovrebbe occuparsi dell’interesse pubblico se solo sapesse scegliere qual è. Le cento piazze sono quelle degli italiani che hanno votato o che si sono astenuti puntando a spazzare via il vecchio e inchinandosi al nuovo: salvo poi scoprire che le roboanti promesse di prima rischiano di trasformarsi nella grigia cenere del dopo. Le cento piazze aspettano: una risposta, un cenno d’intesa, una mano tesa. E non riescono a persuadersi che chi gliela tende poi usa il braccino corto.

Le cento piazze fremono e drizzano le orecchie mentre il governo è alle prese con la legge di Bilancio, ossia con il provvedimento che proprio a loro e alle richieste che veicolano deve offrire sbocchi convincenti. Ieri la Camera l’ha approvata addirittura con un voto di fiducia. Il Senato l’aspetta a braccia aperte: per riscriverla daccapo, a quanto pare. Il presidente del Consiglio è impegnato in una operazione di mediazione con l’Europa che ogni giorno di più assume le forme di una acrobazia. Deve convincere i partner Ue della bontà delle misure adottate da Roma: ma sono proprio quelle misure a non essere ancora definite, mille volte proclamate ma ancora mai scritte e oggetto di un negoziato infinito che dovrebbe accontentare tutti e minaccia di finire per deludere tutti gli attori in gioco.

Altro che Grande Timoniere. Giuseppe Conte deve barcamenarsi in un mare tempestoso cercando di capire chi sono gli amici e chi no: anche e soprattutto all’interno dei sottoscrittori del Contratto. Ritrovandosi nella assai peculiare condizione di non avere a fianco il ministro più importante in questo passaggio: quello dell’Economia, che viene ufficialmente ultra sostenuto e ufficiosamente super delegittimato. E il bello è che mentre la manovra continua ad avere sostanza ectoplasmatica, il traguardo della sua approvazione finale si avvicina di giorno in giorno. Per legge, il Parlamento la deve licenziare in via definitiva entro il 31 dicembre. Altrimenti scatta l’esercizio provvisorio: non certo una iniezione di fiducia da spendere con la Ue e sui mercati.