«I o sono a disposizione per dare tutte le informazioni che servono, ovviamente riguardano un periodo in cui non ero né socio né gestore di quella azienda, come non sono gestore dell’attuale». Luigi Di Maio è costretto a fornire ancora spiegazioni sulla società di famiglia, la Ardima, finita al centro dei riflettori grazie a un servizio delle Iene dedicato a Salvatore Pizzo, ex operaio dell’impresa edile, che sarebbe stato assunto in nero dal padre del vice premier. Ma quello di Pizzo non sarebbe un caso isolato. Il programma televisivo, infatti, ha trovato altri tre vecchi dipendenti dell’azienda di famiglia, chiamati a lavorare senza alcun contratto. E anche se si tratta di episodi avvenuti tra il 2008 e il 2010, dunque almeno due anni prima che l’attuale capo politico del Movimento 5 Stelle acquisisse il 50 per cento dell’impresa, le rivelazioni delle Iene non possono non imbarazzare il ministro del Lavoro. Grillino, per di più, purista dell’onestà a tutti i costi.

Da quanto trapela ( mentre scriviamo la trasmissione non è ancora andata in onda, ndr) le nuove testimonianze partono dal racconto di un uomo che avrebbe lavorato per almeno tre anni per il signor Antonio Di Maio senza alcun contratto. Ma a differenza di Salvatore Pizzo, questo ex dipendente dell’Ardima avrebbe denunciato il suo datore di lavoro e la causa sarebbe ancora in corso. Un dettaglio che potrebbe minare la solidità dell’autodifesa del ministro Di Maio, fin dal primo momento asserragliato dietro alla linea del «non sapevo».

Le altre testimonianze raccolte dal giornalista Filippo Roma sono quelle di un operaio che avrebbe prestato servizio in nero per otto mesi e di un terzo uomo, assunto part- time senza alcun contratto, già impiegato su un altro cantiere per il resto della giornata.

La notizia crea parecchio imbarazzo tra gli ortodossi pentastellati, già costretti a mandar giù la complessa convivenza con la Lega, e mette a dura prova la leadership del vice presidente del Consiglio. Per difenderlo deve intervenire persino Alessandro Di Battista dal Sud America. Per le opposizioni, invece, è l’occasione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Soprattutto per la vecchia dirigenza del Pd, a partire da Maria Elena Boschi e Matteo Renzi, in passato bersagliati dai banchi pentastellati proprio per vicende riguardanti i genitori. «Sull'azienda edile di Luigi Di Maio e sulle scelte di suo padre, ho già detto tutto nel post scritto l'altra notte. Per me basta e avanza: adesso toccherà al vice premier venire in Parlamento e spiegare all'Aula ciò che va chiarito», scrive su Facebook il senatore semplice Renzi. «Ma il ragionamento è un altro. Non mi interessa sbirciare dal buco della serratura che cosa ha fatto Di Maio padre», prosegue l’esponente dem. «Mi sconvolge pensare che Di Maio figlio ha voluto un decreto dignità prima e il reddito di cittadinanza poi che per definizione sono due misure che fanno aumentare la piaga del lavoro nero», affonda l’ex segretario del Pd. «Bisogna rendere più facili le assunzioni, non i licenziamenti come invece ha fatto il decreto dignità. Bisogna dare incentivi per assumere, come il JobsAct, non il reddito di cittadinanza. Bisogna combattere chi evade, non rinviare le fatturazioni elettroniche. Bisogna sanzionare chi fa gli abusi edilizi, non votare i condoni», insiste Renzi, prima di mettere definitivamente in dubbio la buona fede del leader grillino: «Noi siamo contro il lavoro nero, contro l'evasione, contro gli abusi edilizi. L'imprenditore Di Maio non può dire altrettanto. Ma il politico Di Maio da che parte sta?».

E se il Pd chiede al ministro di riferire in Aula, Forza Italia non è da meno. «Non ci si può fidare di un ministro del Lavoro che risulterebbe socio di un’azienda accusata di aver fatto lavorare in nero uno o più operai», dice la vice presidente dei senatori azzurri, Licia Ronzulli. «Siamo sempre garantisti verso tutte le persone che subiscono un’accusa, ma riteniamo altresì che il ministro del Lavoro farebbe bene, se già non l’ha fatto, a risolvere il suo conflitto di interessi dimettendosi quantomeno da socio dell’azienda incriminata, lui che del conflitto di interessi degli altri ne fa la sua bandiera di vita», prosegue Ronzulli, stuzzicando Di Maio su un altro cavallo di battaglia del Movimento. «Non vorremmo, infatti, che il doppio incarico di ministro del Lavoro e di socio della società facesse desistere l’ispettorato del Lavoro, che opera sotto la vigilanza del ministro del Lavoro, dall’esercitare con serenità quelle funzioni di controllo e accertamento che gli sono proprie.