Provate a paragonare i leghisti e i grillini di questi giorni, impegnati col problema della prescrizione, ai bolognesi e modenesi del 1200 raccontati quattro secoli dopo da Alessandro Tassoni nel poema eroicomico della “Secchia rapita” e troverete - con la dovuta fantasia naturalmente - assonanze divertenti.

Come i bolognesi dei tempi di Federico II, i leghisti hanno cominciato compiendo qualche fastidiosa scorribanda nel territorio dei grillini con i dubbi del potente sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti sulla fattibilità del cosiddetto reddito di cittadinanza.

I grillini, convinti di avere risolto tutto facendo inserire nel bilancio del 2019, e in deficit, più di sei miliardi di euro fra le proteste e le minacce europee di una procedura d’infrazione, non hanno gradito. E hanno invaso a loro volta il territorio dei leghisti. Dove, anziché abbeverarvisi, come nel poema del Tassoni, hanno preso a calci una secchia di legno appesa al pozzo del codice penale e contenente la prescrizione, cara - secondo loro - al partito di Matteo Salvini per i benefici ricavati sinora da corrotti, stupratori, assassini e ogni altra sorta di delinquenti frequentati elettoralmente, e imprudentemente, dall’attuale ministro dell’Interno e dai forzisti di Silvio Berlusconi. Dei quali i leghisti sono rimasti alleati a livello locale, anche dopo avere stipulato con i grillini il contratto del governo gialloverde in carica, presieduto da Giuseppe Conte. Ma dei quali, soprattutto, potrebbero tornare ad essere alleati anche alle prossime elezioni politiche.

Dopo avere preso a calci la secchia della prescrizione i grillini, come i modenesi del Medio Evo, se la sono portata come un trofeo nel loro territorio. Dove l’hanno caricata sulla diligenza di una legge contro la corruzione, chiamata enfaticamente “spazzacorrotti”, e ne hanno proposto lo sfondamento. Tale sarebbe infatti la prescrizione se fosse eliminata, come vogliono appunto i grillini, alla prima sentenza nei processi, lasciando senza alcuna scadenza i due successivi gradi di giudizio.

I bolognesi, cioè i leghisti, hanno reagito duramente accusando i grillini di avere scoperto anzitempo la bomba atomica, come l’avvocato Giulia Bongiorno, da qualche mese anche ministro della Pubblica amministrazione con la spilla di Alberto da Giussano sul bavero della giacca, ha definito la soppressione della prescrizione proposta dal suo collega guardasigilli Alfonso Bonafede. E si sono perciò mossi minacciosamente sul territorio bolognese incontrando resistenze accanite. Alla fine la rottura del contratto di governo- richiamato da entrambe le parti, per la sua astuta genericità, a sostegno delle proprie tesi- e la conseguente crisi ministeriale, a sessione di bilancio, come si dice, appena aperta, sono state evitate con un caffellatte preso a Palazzo Chigi dai guerrieri. Che hanno trovato a sorpresa in meno di mezz’ora un accordo, o un compromesso, come preferite.

La secchia della prescrizione è rimasta nelle mani dei grillini, che possono tenersela sulla diligenza della legge contro la corruzione mettendole dentro un ordigno a tempo. Che la sventrerebbe entro il 31 dicembre del 2019, o il 1° gennaio del 1920, come ha preferito annunciare il soddisfattissimo ministro della Giustizia, smanioso di vedere finalmente in braghe di tela tutti gli aspiranti prescritti. Ma la secchia è stata sua volta appesa, sempre nella diligenza della legge sulla corruzione in viaggio tra i corridoi e le aule di commissione della Camera, per poi passare al Senato, a un gancio con la manina dell’avvocato Bongiorno.

Il gancio, un po’ simile a quello al quale è appesa a Modena nella Torre Ghirlandina la secchia immortalata dai versi del Tassoni, altro non è che la riforma del processo penale propostasi nell’occasione dal governo. Che pensa di riuscire nell’anno o poco più che manca al 31 dicembre del 2019, o al 1° gennaio del 2020, a rimanere naturalmente al suo posto, a proporre e a farsi approvare dalle Camere un’apposita legge delega e a varare infine i decreti delegati. Che dovrebbero fare il miracolo di abolire la prescrizione e al tempo stesso garantire non dico i processi rapidi invocati dai leghisti, ma quanto meno la loro “durata ragionevole” garantita dalla Costituzione.

A interrompere, anzi a guastare le feste al solito improvvisate dai grillini, fra terraferma e barconi sul Tevere, quando ritengono di avere segnato un punto a loro favore nell’eterna partita contro avversari e anche alleati, sono arrivati i soliti giornalisti chiedendo al ministro Giulia Bongiorno sulla soglia del Senato, reduce proprio dal caffellatte a Palazzo Chigi, che cosa accadrà della prescrizione a 5 stelle se alla fine dell’anno prossimo la riforma del processo penale non avrà tagliato il traguardo. “Non se ne farà nulla”, ha risposto Bongiorno.

Informati di ciò che evidentemente nel caffellatte a Palazzo Chigi non avevano afferrato, o la Bongorno e Salvini magari non avranno loro spiegato bene, Di Maio e Bonafede sono rimasti basiti. E son tornati alla guerra contro i leghisti, come in quella lunghissima della secchia rapita, e del conte di Culagna, raccontata nel 1614 da Alessandro Tassoni.

Già insoddisfatto per conto suo della prescrizione di conio grillino, diversa da quella che lui vorrebbe troncare all’inizio delle indagini, ben prima del rinvio dell’imputato a giudizio, il buon Piercamillo Davigo ha dato un’ulteriore delusione ai suoi estimatori sotto le cinque stelle. In particolare, il neo- consigliere superiore della magistratura ha detto che gli effetti della riforma grillina della prescrizione si vedranno quando lui sarà già morto. E non è proprio un bell’augurio alla causa politica e giudiziaria di Di Maio, Bonafede e amici, considerando che Davigo ha solo 68 anni, compiuti da meno di un mese, e gode meritatamente - per carità di ottima salute.