Aveva ingannato tutti: la polizia, i magistrati, i medici, i mezzi d’informazione, le associazioni delle vittime, la sua famiglia. Perché non crederle poi?

Il volto trasfigurato dal dolore, i dettagli spaventosi della strage descritti, con pathos, agli psicologi, le raffiche di kalashnikov che continuava a sentire nella sua testa ogni notte, gli amici che aveva perduto per sempre. Eppoi quella cicatrice, squadrata sulla spalla, segno indelebile della tragedia. Molto convincente.

E invece nulla nel racconto della 33enne Alexandra Damien corrispondeva alla realtà: si era inventata ogni cosa, da cima a fondo, con dovizia di particolari e una sfrontatezza che fa gelare il sangue.

La notte del 13 novembre 2015, quando Parigi viene colpita dalla furia del terrorismo jihadista ( 120 morti in quattro diversi attentati) Alexandra non era tra gli avventori del café Carilon, ma era rimasta a casa, le immagini del massacro le ha viste in tv come tutti noi. Frequentava saltuariamente quel bar alla moda a pochi isolati dal Bataclan ma nessun «amico» figura tra le vittime degli attacchi. In uno dei passaggi più imbarazzanti dei suoi interrogatori Alexandra si mostra addolorata per la morte degli amici ma poi, a mano a mano che il magistrato la incalza con le domande, questi diventano dei «buoni conoscenti», infine dei semplici «sconosciuti». Quando i primi pezzi cominciano a cadere crolla tutto l’edificio, rovinosamente, una nuvola di vergogna e pubblico ludibrio la travolge senza appello. Le dichiarazioni incoerenti, i testimoni che non la riconoscono, le indagini, inevitabili, che seguono la richiesta di risarcimento che Alexandra ottiene dallo Stato: «Scroccare la solidarietà di una nazione, vampirizzare la disperazione dei parenti delle vittime del terrorismo è un comportamento spregevole che merita di essere punito», ha commentato severo Arthur Dénouveaux, presidente dell’associazione Life for Paris, nata all’indomani delle stragi.

E dire che, inizialmente, in molti le avevano dato sostegno e conforto, l’avevano aiutata nel complicato percorso di guarigione dai traumi piscologici. Aveva raccontato tante volte di quella maledetta notte, diceva di ricordare poco, di aver perduto i sensi, di essere stata raggiunta di striscio da una pallottola, di aver provato «un profondo senso di colpa» per essere sopravvissuta mentre le persone a lei care non c’erano più.

Nelle settimane successive agli attentati Alexandra ha vissuto una fregola presenzialista, è andata più volte in tv, i lunghi capelli neri e l’espressione dolente appaiono in quasi tutte le foto delle commemorazioni, ha stretto la mano a personaggi politici illustri, ha incontrato decine di parenti delle vittime, si è commosa e ha pianto assieme a loro, ha partecipato alle sedute di psicoterapia collettiva con gli altri supersititi in una struttura specializzata in Normandia, con alcuni di loro sono nati persino dei legami. E forse a un certo punto si è realmente convinta di esere una reduce dell’attentato più sanguinoso che mai abbia colpito la Francia, in una spirale morbosa di autosuggestione ha vissuto per almeno un anno e mezzo una vita che non era la sua. Di sicuro non è una squilibrata o una persona incapace di intendere e volere, ma la folle e puerile idea di ingannare una nazione intera nell’idea di non venire mai scoperta è ai limiti della consapevolezza.

Ieri un tribunale di Parigi l’ha riconosciuta colpevole di «truffa e falsa testimonianza» condannandola a due anni, 18 mesi con la condizionale e sei di reclusione effettiva. Dovrà restituire i 20mila euro che aveva ottenuto dal Fondo di garanzia delle vittime del terrorismo ( Afvt), circostanza che toglie forza alla tesi della mitomania, del vaneggiamento narcisista, della patologia mentale. Dalle quelle menzogne ha tratto dei vantaggi materiali innegabili, si è personalmente arricchita ed è per questo che non le hanno fatto sconti.

Alexandra Damien ha confessato tra le lacrime, questa volta autentiche, ha chiesto il «perdono» di tutte le persone che ha ingannato in questi tre anni di delirio. Oltre ai sei mesi di prigione e ai risarcimenti il giudice le ha imposto di cercare un impiego appena tornerà libera. Il suo vecchio datore di lavoro l’aveva licenziata non appena le sue bugie sono finite sulle prime di tutti i giornali. Lo stesso giorno in cui sui soliti, orrendi social migliaia di persone l’hanno iniziata a insultare con parole irriferibili e a minacciarla di morte.