Nei palazzi del potere, in questi giorni, si campa in una specie di universo surreale. Tutti si confessano molto più che preoccupati. Molti profetizzano un’apocalisse prossima ventura nell’arco non di anni ma di settimane o se va proprio bene di pochi mesi. Alcuni, purtroppo i meglio informati e i più vicini al cuore che batte sempre più stancamente della Ue, azzardano la previsione secca: “Finisce male”. Allo stesso tempo, però, nessuno sembra dar troppo peso alla cosa, nessuno appare più turbato che tanto. La ragione di tanta apparente incoscienza la confessa un noto senatore oggi targato FdI: «Alla fine c’è sempre lo stellone dell’Italia».

Già, “lo stellone”, quel dispositivo misterioso e arcano per cui alla fine la penisola se la cava sempre. Quando dovrebbe uscire da una situazione con le ossa rotte non va oltre la slogature. Dove altri ci rimetterebbero le penne si salva con un’ingessatura. E’ così da decenni. Ha sempre funzionato? Perché l’astro fatato dovrebbe smettere di brillare proprio stavolta?

In realtà la magia c’entra poco e anche il fattore C, chiamato spesso in causa anche dai più razionali, ha un peso limitato. La “fortuna” d’Italia è stata dal dopoguerra sino all’inizio degli anni ‘ 90 la sua posizione strategica nella cornice che dire vantaggiosa non è poco ma pochissimo della guerra fredda e del mondo diviso in blocchi. Sulla decisione di stanziare un massiccio piano di aiuti a fondo perduto per l’Europa devastata dalla guerra, annunciata il 5 giugno 1947 ad Harvard dal segretario di Stato George Marshall, pesarono anche considerazioni di ordine economico, la necessità di dare una spinta al capitalismo europeo messo in ginocchio dalla guerra. Però pesarono in misura certamente maggiore calcoli geopolitici e strategici. Senza la ripresa alcuni di quei Paesi rischia- vano forte di cadere tra le zampe ungulate dell’orso sovietico e nessuno era più a rischio della penisola. Per costruire una diga capace di reggere all’impatto non bastavano i carri armati. Servivano ripresa e sviluppo. Serviva il benessere.

La conseguenza fu che, mentre nel solo Paese che dell’Europa occidentale che avesse resistito alla Wehrmacht e fosse quindi a pieno titolo vincitore il dopoguerra con le sue privazioni e la sua povertà si allungò fino ai primi anni ‘ 60, in Italia era già boom. C’era un prezzo da pagare. Quando la feroce anticomunista Claire Booth Luce fu nominata da Eisenhower ambasciatice a Roma si fece un obbligo di strapazzare subito di brutta l’onnipotente capintesta della Fiat Vittorio Valletta per non aver ancora stroncato la Fiom, il sindacato rosso. Minacciò di sospendere le commesse con l’aviazione americana e il povero Valletta dovette correre a Washington, dove ottenne la conferma del contrattone promettendo di fare al più presto il proprio dovere. Se ne occupò, senza andare per il sottile quanto a metodi, e in effetti a partire dal 1955 la Fiom fu quasi spazzata via dalla Fiat. Il potentissimo colonnello Renzo Rocca, direttore dell’Ufficio Rei ( Ricerche economiche e industriali) del Sifar aveva il compito di distribuire le prebende tra i vari industriali. Ma di fatto gli aiuti a stelle e strisce continuarono a coprire le spalle italiane ben oltre la fine del Piano Marshall e per tutti gli anni ‘ 60. Gli italiani erano grati ma fino a un certo punto. Già nei ‘ 50 Enrico Mattei indirizzò il Paese sulla strada di una politica economica che prendeva allegramente a sganassoni gli interessi delle multinazionali americane e inglesi in Medio Oriente sul fronte ribollente delle risorse energetiche. Lo fecero fuori ma i leader democristiani e so- cialisti proseguirono con la politica filo- araba, centrale nella caccia alle risorse energetiche, per tutti gli anni ‘ 70 e soprattutto negli ‘ 80.

Anche in quel caso la sfida era un rischio calcolato. L’Italia sapeva che gli Usa e il blocco occidentale non potevano permettersi una crisi con il Paese di confine tra Ovest ed Est, per quanto disobbediente potesse dimostrarsi sul fronte Mediterraneo. Tanto meno quando, negli anni ‘ 80, la Guerra Fredda corse il rischio di scaldarsi di nuovo. La rendita di posizione geopolitica non poteva sopravvivere al crollo del Muro e in fondo si spiega così anche la tempesta che nel 1992 travolse una prima Repubblica non più indispensabile.

La formula che dovrebbe sostituire, e in parte lo ha effettivamente fatto, i vantaggi offerti dal mondo diviso in blocchi dei bei tempi è l’ormai classico “Too Big to Fail”. L’Italia è troppo grande per fallire. I suoi titoli sono riposti nella pancia di troppe banche sparse per il mondo. Il suo default trascinerebbe nel crollo mezzo mondo a partire dall’Unione europea. Nel 2011 l’arma ha probabilmente funzionato. Le riforme imposte dalla famosa lettera dell’estate 2011, firmata dal presidente uscente della Bce e da quello in procinto di prenderne il posto Draghi, sono state dure ma non draconiane. Poteva andare peggio e Mario Monti, il premier incaricato di trasformare in leggi gli ordini contenuti in quella lettera non ha mai smesso di rivendicare il merito di aver evitato il baratro. E’ questo lo “stellone” su cui punta il governo gialloverde e che giustifica le speranze di evitare il tracollo minacciato e previsto.

Il prezzo è senza dubbio una sovranità limitata, ma non era forse lo stesso quando l’Italia era troppo importante strategicamente per cadere?

Può essere che il calcolo si riveli esatto e lo stellone protegga per l’ennesima volta la penisola. Però dal 2011 alcune cose sono cambiate. I titoli del Tesoro, allora, erano in mano soprattutto estera, dunque delle banche e degli investitori istituzionali esteri o multinazionali. Se ne sono in buona parte liberati e il debito oggi è per quasi due terzi in mano alle banche italiane, il che limita la possibilità di contagio e di conseguenza il potere di deterrenza italiano. La Bce dispone inoltre di uno strumento, l’Omt, la possibilità di acquisto illimitato di titoli a breve scadenza, che pensato per evitare il rischio di default di un Paese dell’eurozona può essere però adoperato per proteggere gli altri Paesi da un eventuale default.

Lo stellone c’è ancora, perché un rovinoso tonfo in Italia metterebbe comunque la Ue a rischio di terremoto. Ma è un bel po’ meno scintillante di prima.