Biagio de Giovanni è un punto di riferimento culturale per la sinistra italiana. Lo è oggi come da quasi mezzo secolo. Se lo si interroga sulla crisi dello spirito pubblico, sulla violenza delle offese in rete che spazza via la dialettica, il filosofo ed ex europarlamentare del Pci e del Pds non può che compiangere la fine di tutti i mediatori politicoculturali. «Dei partiti innanzitutto. A cui si deve un’opera di pedagogia durata per anni. Ma non c’è più neppure la cosiddetta borghesia riflessiva, e in una situazione in cui non ci sono più limiti, né di linguaggio né nell’agire politico, tutto si confonde e le stesse garanzie fondamentali sono messe in discussione». In una cornice che de Giovanni vede a tinte fosche, l’idea di riconoscere all’avvocatura il ruolo di custode dei diritti «è giustissima», dice l’editorialista del Mattino, «ma temo sia impossibile vederla realizzata».

Partiamo dalla proposta avanzata dal Congresso nazionale forense, appena celebrato a Catania: proprio perché si assiste a un diradarsi della sensibilità per le garanzie, l’avvocatura chiede di veder riconosciuta in Costituzione la propria libertà e la propria indipendenza, anche per riaffermare l’intangibilità delle garanzie. Potrebbe servire a scuotere uno spirito pubblico sempre più distratto sui diritti?

Serve una premessa. Un vulnus in Costituzione c’è, ed è nel mancato realizzarsi di quanto previsto all’articolo 111, ossia del giusto processo: se non si separano le carriere dei magistrati la funzione del difensore ne risulta troppo indebolita. Io credo che i diritti vadano affermati nel processo, dunque si tratta di un limite grave. So che oggi è quasi temerario pensare a una simile riforma, ma il tema andrebbe tenuto vivo. Detto questo, siamo di fronte a una crisi complessiva dei diritti fondamentali.

Eppure la Costituzione è ancora lì ad affermarli.

Mi riferisco a un allontanarsi dello spirito pubblico da questi princìpi. Che vengono messi in discussione dappertutto, non solo in Italia. Si è a lungo detto di un modello europeo dei diritti dell’uomo: sta venendo chiaramente meno. Se ne ha concreta verifica dall’invadenza della pubblica accusa come dai mutamenti dell’opinione pubblica. Perciò sono pessimista sulla richiesta avanzata dagli avvocati.

Cosa intende dire?

Che la proposta di veder riconosciuto il ruolo dell’avvocato come presidio dei diritti, delle garanzie, è giustissima. Di più: va sostenuta. Ma ha scarsissime possibilità di essere davvero presa in considerazione, proprio per la situazione in cui siamo immersi in Italia.

Ma cedere al linguaggio dell’odio non è una trappola per gli stessi cittadini, che ci rimettono sul piano della coesione sociale e, quin- di, della capacità di interlocuzione col potere, qualunque esso sia?

Lei vorrebbe farmi dire che dovrebbe scattare un istinto di sopravvivenza diffuso, tale da far accantonare la violenza verbale e ripristinare una dialettica pubblica strutturata. Mi perdoni ma non ci credo. Su questo, il mio è un pessimismo nero. La violenza nel linguaggio è ormai stupefacente. E i partiti che oggi governano nel nostro Paese trovano un efficace strumento proprio in quella violenza, in quanto capace di neutralizzare qualunque opposizione.

Lei dice che in Italia l’alternativa politica già non esiste più?

Dico che andrebbe condotta un’intensa battaglia innanzitutto culturale, per contrastare questa subcultura della violenza. Che poi è anche demagogia. Più precisamente, è violenza che si esprime anche nei toni assertivi degli slogan politici, che non ammettono repliche anche quando proclamano verità assolutamente fasulle. La violenza nel linguaggio politico è legata anche al fatto di dover sempre mantenere il tono della campagna elettorale.

Ma siamo sicuri che la disgregazione sociale sia un vantaggio, per i cosiddetti populisti?

I cosiddetti populisti esprimono la cultura che possono esprimere, ma noi siano di fronte a un cambiamento dello spirito pubblico che va ben oltre l’Italia. Passa per il Brasile, per Trump, la Brexit, e consiste in un décalage generalizzato della cultura politica. Sono crollate le forme di mediazione, quelle grandi culture che avevano la funzione di mediare tra l’opinione pubblica e gli strumenti della democrazia. I partiti, per intenderci, hanno svolto una continua opera di pedagogia, pur con i loro limiti. Questa mediazione è sparita ovunque.

La causa principale?

Di certo contribuisce la rete che è un mezzo in cui si afferma, si asserisce, non si argomenta. Questa immane semplificazione ha schiacciato l’individuo sulla massa e la massa sull’individuo: è il meccanismo alla base dell’alterazione dello spirito pubblico. Si assiste a una forma disperata di afasia. Ognuno pensa a sé, non c’è più il modo di esprimere le idee con una voce sola.

Addio partiti. Ma categorie organizzate come le professioni non potrebbero favorire il recupero di una dialettica pubblica civile?

Certo, la possibilità esiste. Si deve lavorare appunto sugli snodi in cui la cultura ha ancora una struttura organizzata. Nell’ambito della giustizia, per esempio, gli avvocati hanno un ruolo significativo, che però non riesce mai a diventare politica. Eppure si deve provare in tutti i modi, almeno in Italia, ad alzare qualche diga rispetto alle subculture che provengono dalla pancia del Paese.

E la magistratura? Potrebbe svolgere anch’essa un ruolo culturale, visto che i giudici sono sempre più bersaglio di attacchi violenti se solo firmano un’ordinanza cautelare meno restrittiva del previsto?

E però dobbiamo dirla tutta: la magistratura ha scorazzato per anni fino a distruggere un intero sistema politico. Quanto avvenuto in Italia con Mani pulite non trova analogie in Occidente. Dopodiché, un’elaborazione culturale utile, certo, potrebbe venire anche dalle toghe, come negarlo: forse io, personalmente, ho polemizzato così tanto con gli eccessi di politicizzazione soprattutto dei pm da essere un po’ restio nel parlarne, però è chiaro che dai magistrati potrebbe venire un contributo importante. Ma restano due perplessità. Non solo l’atteggiamento chiuso e aggressivo tenuto in passato dai giudici, ma anche il rischio che non esista alcuna forza politica di opposizione in grado di recepirne le sollecitazioni. A questo, aggiungo che lo stesso sistema dell’informazione è sottoposto ad attacchi sempre più minacciosi.

È difficile scalfire il suo pessimismo.

Vede, credo ci siano tutte le premesse per l’affermarsi di una democrazia illiberale. La democrazia è nata in opposizione al liberalismo. Poi tra le due categorie c’è stato un incontro, ma oggi rischiano di separarsi di nuovo. E nella confusione che può venirne rispetto all’equilibrio tra i poteri, il pericolo è che nessun diritto sia più davvero garantito.