L’associazione mafiosa c’è, ma le pene vengono ridotte. I giudici della Terza Corte d’Appello di Roma hanno letto ieri nell’aula bunker di Rebibbia ( presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi) il dispositivo di una delle sentenze più attese degli ultimi anni, riuscendo di fatto a dare ragione sia all’accusa che alla difesa.

La mafia a Roma c’è, ha stabilito il collegio ribaltando la decisione del luglio 2017 ( che aveva riconosciuto solo l’esistenza di due associazioni per delinquere, che avevano i riferimenti in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi). Eppure, anche condannando gli imputati per un diverso e più grave titolo di reato ( dal 416 c. p. al 416 bis, ovvero l’associazione mafiosa), le pene sono state ridotte. Il manovratore del “Mondo di Mezzo” Carminati, condannato in primo grado a 20 anni, si è visto ricalcolare la pena a 14 anni e sei mesi. Il “ras delle coop” Buzzi doveva scontare 19 anni, ridotti a 18 e 4 mesi. I due hanno seguito la lettura del dispositivo in videoconferenza dai penitenziari di Opera e di Tolmezzo e non hanno voluto essere ripresi dalle telecamere.

I giudici, inoltre, hanno riconosciuto l’associazione per delinquere di stampo mafioso, l’aggravante mafiosa o il concorso esterno anche per 18 dei 43 imputati.

L’esito della camera di consiglio, se da una parte ha sposato la linea dell’accusa di chiedere il riconoscimento del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, dall’altra non ha invece accolto la richiesta di pena: 26 anni e mezzo per Carminati e 25 anni e 9 mesi per Buzzi ( in primo grado, invece, la richiesta era stata di 28 anni per Carminati e per Buzzi di 26 anni e 3 mesi).

«Massimo Carminati è un boss, così lo chiamano i criminali nelle intercettazioni, riconoscendolo come capo, obbediscono a lui perché riconoscono il suo potere criminale», aveva spiegato il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini nella sua requisitoria dello scorso 29 marzo. E ancora, «non si tratta di stabilire se a Roma c’è la mafia ma se questa organizzazione criminale rientra nel 416bis, se ha operato con il metodo mafioso che si riconosce dall’uso della violenza e intimidazione, dall’acquisizione di attività economiche e dall’infiltrazione nella pubblica amministrazione», ha spiegato la Procura, che nell’atto di appello aveva contestato solamente il mancato riconoscimento del 416 bis e dell’aggravante del metodo mafioso e dunque chiedeva una diversa lettura giuridica dei fatti ( riconoscendo non due divese associazioni per delinquere semplici ma una unica e di stampo mafioso) e non la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Linea che ha convinto la Terza Corte D’Appello. Ora ai difensori non resta che attendere il deposito delle motivazioni, per valutare gli estremi per un ricorso in Cassazione.

IL PRIMO GRADO

Nel luglio dello scorso anno, la Decima sezione penale del Tribunale di Roma aveva ritenuto che esistessero due associazioni: una coordinata da Carminati e dedita ad usura ed estorsioni; la seconda composta sempre da Carminati ma insieme a Salvatore Buzzi, che invece si occupava di corrompere funzionari per ottenere appalti in favore delle coop dello stesso Buzzi. Al termine del dibattimento, le condanne erano state 41, con 5 assoluzioni. Nelle motivazioni - rovesciate nella decisione d’Appello - si leggeva che «la mafiosità» individuata dalla procura nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo non è quella «recepita dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione». Non solo, il tribunale non aveva individuato «per i due gruppi criminali, alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose» e «le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità autonoma». Nessun margine di equivoco, almeno per i giudici del primo grado, riguardo la non “mafiosità” delle condotte. Gli stessi giudici, però, avevano scelto una linea di severità nell’indicazione delle pene: 20 e 19 anni per Carminati e Buzzi e a nessuno dei 46 imputati il riconoscimento di alcuna attenuante genericha. Tanto che l’avvocato di Carminati, Giosuè Naso, aveva parlato di «Pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato dato alla procura» nel non riconoscere l’associazione per delinquere di stampo mafioso.

La Corte d’Appello, invece, sembra aver optato per la linea opposta: riconosce l’associazione mafiosa, ma ricalcola le pene in senso favorevole agli imputati.

LE REAZIONI

«Le sentenze vanno rispettate. Lo abbiamo fatto in primo grado e lo faremo anche adesso. La Corte d’Appello ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso». Questo il commento a caldo del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, al quale ha fatto eco il Procuratore generale Giovanni Salvi, definendo la sentenza «il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell’esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economi- ca e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie». Opposte, invece, le reazioni dei difensori dei due principali imputati, che in primo grado avevano ottenuto la vittoria dell’esclusione della “mafiosità” delle condotte. «È una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese», ha commentato il difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, sottolineando il fatto che «i magistrati hanno avuto l’atteggiamento di Ponzio Pilato, quello del “mezza prova mezza pena”. Siccome sanno benissimo che il fenomeno mafioso nei fatti non è minimamente configurante si sono messi una mano sulla coscienza riducendo dove hanno potuto i trattamenti sanzionatori». Ancora più duro il difensore di Carminati, Bruno Giosuè Naso, che ha definito «una sorpresa» la sentenza: «L’insussistenza dell’accusa mafiosa mi sembrava inattaccabile: mi sbagliavo. Se persino questo collegio, che è uno dei migliori della Corte d’Appello, ha riconosciuto l’aggravante mafiosa o io dopo 50 anni di attività professionale non capisco più nulla di diritto, oppure è successo qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza». Plauso per la decisione del giudici d’appello, invece, è stato espresso dal mondo politico, in particolare dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico. «Questa sentenza conferma che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. È quello che stiamo facendo», ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, presente in aula. «È una sentenza storica che certifica l’esistenza di un’organizzazione criminale tollerata dalla vecchia politica capitolina», ha aggiunto Giulia Sarti, presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio. Tra i dem, il primo a ringraziare la procura «per il grande lavoro» è Matteo Orfini. Il senatore Franco Mirabelli, invece, ha sottolineato come «dopo tanti anni il negazionismo di chi ha sostenuto che a Roma non ci fosse la mafia è stato sconfitto».