Per quanto smentito da Matteo Salvini, che ha raccontato di averne parlato prima solo col presidente del Consiglio Giuseppe Conte raccogliendone peraltro solo la solidarietà o comprensione, è stato largamente pubblicato sui giornali il monito che il grillino Luigi Di Maio avrebbe rivolto al collega leghista di governo per strappargli una frenata, una retromarcia o quant’altro nello scontro con i magistrati: “Così i mei non li tengo più”. Che, guarda caso, conferma un certo stile o modo di ragionare. E’ la stessa frase attribuita a Di Maio, sempre a colloquio con Salvini, dopo l’insediamento delle Camere elette il 4 marzo scorso, per spiegargli il rifiuto di incontrare Silvio Berlusconi, o solo di raccoglierne una telefonata, per l’assegnazione delle presidenze parlamentari e poi per le trattative di governo fra grillini e leghisti.

Quei “miei non li tengo più” o loro varianti, come al plurale “i nostri non li teniamo più”, non sono soltanto il ritorno alla “seconda Repubblica”, alla sintonia di governo fra i leghisti e Silvio Berlusconi evocata con pubbliche dichiarazioni dal guardasigilli Alfonso Bonafede dopo il facebook in diretta di Matteo Salvini venerdì sera, nel suo ufficio al Viminale. Dove gli avevano appena notificato l’avviso della Procura di Palermo per il sequestro plurimo e aggravato di persona contestatogli con le procedure del cosiddetto tribunale dei ministri a proposito della vicenda degli immigrati sulla nave Diciotti.

Nato solo nel 1976, beato lui, Bonafede non può sapere - e te- mo che nessuno glielo abbia raccontato - che a non tenere più i loro furono ricorrentemente i grandi partiti - grandi davvero - della cosiddetta e più lontana prima Repubblica, mai in grado o disposti - anche quando ne ebbero i numeri, come capitò alla Dc dopo le elezioni del 18 aprile 1948 - a governare da soli, e sempre protesi invece a governare con altri, direttamente o con il loro appoggio.

Ricordo ancora il racconto, anche mimico, che Aldo Moro mi fece una volta delle telefonate e visite dei dirigenti della Dc Mariano Rumor e Flaminio Piccoli, insieme o separatamente, l’uno segretario e l’altro vice segretario del partito, nei quasi cinque anni da lui trascorsi ininterrottamente a Palazzo Chigi alla guida dei primi governi “organici” di centro- sinistra, fra il 1963 e il 1968. “I nostri così non riusciamo più a tenerli”, dicevano i due a Moro rimproverandogli la “troppa pazienza” o “il troppo spago” che lui concedeva ai socialisti. Moro si sfogò con me, imitando - ripeto - con voce e smorfie i colleghi di partito, quando gli andai a fare gli auguri natalizi del 1968. Egli aveva perduto da mesi Palazzo Chigi, per quanto la Dc fosse uscita dalle urne con più voti e più parlamentari di prima, e i socialisti unificati con molti meno voti di quanti non ne avessero preso separatamente cinque anni prima come Psi e Psdi. E al posto di Moro, dopo la solita pausa balneare di Giovanni Leone, si era insediato a Palazzo Chigi Mariano Rumor guidando un’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro- sinistra, senza più la “delimitazione della maggioranza a sinistra”, quindi più aperto all’opposizione comunista, e con la concessione di un’inchiesta parlamentare sui servizi segreti, negata in precedenza ai socialisti da Moro. Che pure nel 1964 aveva già rischiato di perdere il governo per manovre attribuite, a torto o a ragione, ai servizi segreti e tradotti dall’allora vice presidente socialista del Consiglio Pietro Nenni in “rumori di sciabole” scrivendone nei suoi diari.

Nel parlare dei “nostri che non riusciamo più a tenere” Rumor e Piccoli, insieme o separatamente, non alludevano solo agli elettori della Dc ma anche, o più in particolare, alla corrente dello scudo crociato – quella dei cosiddetti “dorotei”che condividevano con Moro. E dalla quale egli uscì dopo lo sfratto da Palazzo Chigi guidando per un po’ l’opposizione interna democristiana, sino a superare a sinistra i dorotei con la famosa “strategia dell’attenzione al Pci”, scavalcato anch’esso, in verità, dall’ormai ex presidente del Consiglio nella lettura della storica contestazione sessantottina, ancora oggi di controversa interpretazione.

Tre anni dopo, alla fine del 1971, i “dorotei” tornarono a farsi vivi con Moro, in delegazione guidata da Rumor, per spiegargli come e perché, caduta la candidatura di Amintore Fanfani al Quirinale per succedere al socialdemocratico Giuseppe Saragat, essi non fossero “in grado” di designare lui, nel frattempo diventato ministro degli Esteri e sostenuto dal segretario del partito Arnaldo Forlani. “Passeresti agli occhi dei nostri come il candidato del Pci”, dissero Rumor e Piccoli a Moro. Che si limitò a rispondere: “Mi avete confezionato un abito su misura che pure non mi appartiene”. Giorgio Amendola contemporaneamente raccontava ai giornalisti nel “transatlantico” di Montecitorio degli inutili tentativi compiuti “da varie parti” sul Pci per far votare Fanfani e concludeva: “L’unico che non ci ha chiesto i voti è stato Moro”. Troppo orgoglioso forse per farlo, almeno senza una preventiva investitura del suo partito, che perciò non gliela concesse in una votazione a scrutinio segreto nei gruppi parlamentari, a favore invece di Giovanni Leone.

Il calendario si sposta di altri quattro anni e ci porta alla fine del 1975. Moro era di nuovo a Palazzo Chigi, a guidare col vice presidente Ugo La Malfa un governo Dc- Pri appoggiato esternamente dai socialisti. Il cui segretario Francesco De Martino gli telefonò per fargli gli auguri di fine anno…. e di fine governo, raccontandogli di non riuscire più a tenere il suo partito nella maggioranza senza la partecipazione anche dei comunisti.

Seguirono le elezioni politiche anticipate del 1976, dalle quali la Dc e il Pci uscirono distanziati di soli quattro punti, ma incapaci per ragioni numeriche in Parlamento di governare l’una contro o senza l’altro. Toccò a Moro, ormai soltanto presidente dello scudocrociato ma in realtà il vero regolo della Dc, di sbloccare la situazione con la formula dei “due vincitori” costretti per la loro stessa natura a garantire il sistema con la formazione di una maggiorana transitoria di “solidarietà nazionale”. Il Pci di Enrico Berlinguer - già sottrattosi alla vecchia prospettiva dell’alternativa di sinistra adottando quella del “compromesso storico” con la Dc e chiunque altro disposto ad evitare svolte reazionarie come quella avvenuta nel pur lontano Cile - rispose all’appello con la formula della “non sfiducia” a un governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti.

Ma alla fine del 1977, in una situazione politica e sociale efficacemente rappresentata su Repubblica da Giorgio Forattini con una vignetta dove Enrico Berlinguer faceva colazione in vestaglia con i capelli dritti procuratigli dai fischi dei metalmeccanici che sfilavano sotto la finestra contro la politica del governo, il segretario del Pci comunicò a Moro di non “riuscire più a tenere” i suoi elettori e militanti su una posizione defilata come l’astensione. Occorreva un passo politico in avanti: un programma ben concordato e magari anche la partecipazione del Pci al governo tramite qualcuno degli indipendenti di sinistra eletti al Parlamento nelle sue liste.

Moro, per quanto Andreotti a Palazzo Chigi e Benigno Zaccagnini alla segreteria del Dc fossero disposti ad andare anche oltre, convenne sulla richiesta del programma ma non sul resto per ragioni di politica internazionale, pensando ai sospetti degli americani. Si passò così a marzo del 1978 dall’astensione al voto di fiducia, che significava la partecipazione del Pci a pieno titolo alla maggioranza parlamentare.

Purtroppo il tragico sequestro terroristico di Moro traumatizzò il nuovo corso politico, sino a troncarlo con una crisi che riportò nel 1979 spontaneamente il Pci all’opposizione. Ma già all’indomani immediato della morte di Moro, e ancora nel pieno delle polemiche sulla gestione della linea della fermezza adottata contro le brigate rosse, Berlinguer aveva dovuto chiedere e ottenere dalla Dc il sacrificio delle dimissioni di Giovanni Leone da presidente della Repubblica per fronteggiare una crisi nei rapporti fra società civile e società politica avvertita dal segretario del Pci nello stentato salvataggio del finanziamento pubblico dei partiti dall’abrogazione referendaria chiesta dai radicali.

E la testa del capo dello Stato, reclamata da Berlinguer perché non riusciva più a trattenere i suoi, rotolò politicamente, anche a costo di accreditare una campagna contro il povero Leone destinata a risolversi giudiziariamente dopo qualche anno a suo favore. O, peggio ancora, a costo di dare l’impressione che il presidente avesse odiosamente pagato l’imprudenza di essersi messo di traverso alla linea della fermezza durante il sequestro di Moro, sino a predisporre la grazia per una detenuta, Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici “prigionieri” indicati dalle brigate rosse per uno scambio col presidente della Dc. Anche formule di governo successive alla tragedia Moro, come le edizioni del pentapartito a guida prima socialista e poi democristiana, sino alla fine della cosiddetta prima Repubblica per lo tsumani di Tangentopoli, finirono per la incapacità manifestata dalla Dc e dal Psi, a seconda dei casi, di riuscire a tenere i loro elettori e militanti di fronte ai costi politici della loro difficile alleanza di governo.

Ma non mancarono crisi da mancata tenuta di questo o quel partito di governo neppure durante la cosiddetta seconda Repubblica, sia nel centrodestra con la caduta, per esempio, del primo governo di Silvio Berlusconi per mano della Lega di Umberto Bossi, sia nel centrosinistra con la caduta prematura sia del primo sia del secondo e ultimo governo di Romano Prodi per l’insofferenza della sinistra radicale. E infine del governo tecnico di Mario Monti, arrivato si al termine ordinario della sedicesima legislatura ma perdendo per strada l’appoggio di Berlusconi, pure lui convintosi di non riuscire a tenere i suoi elettori continuando a subire l’impopolarità dei provvedimenti del governo tecnico succedutogli nell’autunno di due anni prima. E quella dissociazione per poco non fruttò al Cavaliere una clamorosa vittoria elettorale nel 2013.

I grillini, quindi, a dispetto della rivoluzione o del solo “cambiamento” decantato col “contratto” stipulato con i legisti, non stanno scoprendo o vivendo nulla di nuovo nel loro rapporto di governo con Salvini. E neppure quest’ultimo, se e quando deciderà di staccare lui la spina della difficile alleanza col movimento delle 5 stelle sui temi della giustizia o altro. E’ la politica, bellezza.