Oggi in Francia, domani in Europa. Il motto del presidente francese Emmanule Macron è questo e se non manca di un certo cinismo va anche detto che le circostanze giustificano la strategia. In Francia l’apparentemente incontenibile avanzata di Marine Le Pen ha fatto la sua fortuna. Gli ha permesso di incassare voti che in un quadro diverso non sarebbero mai andati al suo partito, tanto personale da fregiarsi delle stesse iniziali del suo nome, En Marche. Gli ha consentito di salassare, limitandosi a giocare di rimessa rispetto alla temuta Marine, sia i gollisti che i socialisti.

Le elezioni europee somigliano a una replica su vasta scala della situazione francese alcuni mesi prima dell’apertura delle urne. L’onda“populista” e “sovranista” sembra destinata a travolgere ogni resistenza, anche perché di resistenze ne incontra ben poche. La crisi del Ppe è profonda: tanto che al suo interno Orban può ambire a conquistarlo rimodellandolo poi fino a lasciare intatta solo la sigla. Quella del Pse, in compenso, è terminale e nulla autorizza a sperare in un miracolo di maggio. Specularmente a Orban e Salvini, che mirano a conquistare l’Europa giocando di sponda, uno all’interno e uno all’esterno del Ppe ma con una manovra convergente, Macron persegue lo stesso obiettivo sul fronte opposto: ergersi a bastione della resistenza anti populista con l’intenzione di sostituire dopo il voto una Angela Merkel ormai fiaccata come vero leader europeo.

La prima linea dello scontro non può che essere l’Italia, perché è l’Italia, non l’Ungheria o l’alleanza di Visegrad e neppure l’Austria di Kurz, il campo di battaglia decisivo. Una vittoria straripante del fronte sovranista qui si ripercuoterebbe immediatamente in tutta Europa con effetti ben più dirompenti del plebiscito ungherese a favore di Orban di qualche mese fa. Si può capire quindi perché, dall’Eliseo, il presidente francese bersagli il governo di Roma con la la foga di un politico italiano e anche qualcosina in più. Salvini accetta la sfida ben volentieri. Disposta così la scacchiera, infatti, comunque vada il voto di maggio la vecchia Europa, l’Unione che per vent’anni ha fatto perno sul Ppe e sul Pse non ci sarà più e il fronte sovranista sarà protagonista assoluto. A Macron, che rivendica l’essere “il principale avversario” di Salvini e Orban, il ministro degli Interni italiano risponde rinfacciandogli l’ipocrisia: “Più di 48mila respingimenti alla frontiera con l’Italia l’anno scorso: abbia il buon gusto di tacere e non dare lezioni”. Il leghista mette, forse involontariamente, il dito nella ferita aperta. Quella di Macron non è, o almeno non è ancora, un’idea di Europa diversa e quindi in grado di rialzarsi dalla crisi in cui versa. È solo un’opa sulla sinistra e sui centristi giocata tutta e solo in nome dell’anti- populismo, anzi sull’antifascismo.

In Italia le parole del presidente francese sono gocce di pioggia sul già fradicio. Perché in Italia, persino più altrove, la sinistra non riesce a uscire dal vicolo cieco in cui si dibatte dal 4 marzo. L’appello di Walter Veltroni di due giorni fa ha fatto molto rumore ma solo per la firma in calce. Nel concreto Veltroni dice infatto ben poco. Rivendica in pieno tutta la sua gestione del Pd, senza rendersi conto che la segreteria Renzi si è limitata in realtà a portare i princìpi del Lingotto alle loro logiche conseguenze. Come spesso gli capita l’ex sindaco di Roma gioca sulle apparenze dribblando la sostanza. Apre il suo articolo con un omaggio al sociologo scomparso Luciano Gallino, molto caro alla sinistra, dimenticando di aver costruito il Pd su basi opposte a quelle che Gallino avrebbe voluto, e non rinnega la scelta di candidare nel 2008 un esponente di spicco di Confindustria come Calearo, con ciò svuotando di qualsiasi contenuto le velleità unitarie a sinistra. Il candidato alla segreteria Zingaretti, Enrico Letta e Carlo Calenda, fresco d’iscrizione al Pd, sono stati i più solerti nell’applaudire il “prezioso contributo” dell’ex segretario. Molto più tiepidi i renziani. Le ragioni della distinzione sono chiare e con la sostanza di un programma politico reale hanno ben poco a che vedere. La divaricazione riguarda solo l’area politica ed elettorale a cui guardare. Veltroni, retorica a parte, indica la via del centrosinistra, la continuità con l’Ulivo degli anni 90, con un’Unione depurata dalle frange estreme sia al centro che a sinistra. Propone un Pd capace di aggregare intorno a sé una serie di forze minori tenendo però fissa la barra nella rotta squadernata dieci anni fa al Lingotto. I renziani, come Macron, mirano invece a raccogliere forze anche dal centrodestra, dall’esercito prossimo al “si salvi chi può” di Arcore. In fondo il viaggio di Macron era partito guardando proprio al modello allora vincente di Renzi in Italia e, prima della batosta del 4 marzo, l’ex premier di Rignano aveva in mente per le europee proprio l’asse con En Marche.

Ma in questa specie di asta pubblica, nella quale viene messa al bando un’eredità ancora cospicua di voti, un’idea di sinistra diversa da quella sconfitta nell’ultimo decennio ancora non c’è. Né in quel che resta del Lingotto e neppure all’Eliseo.