Non poteva succedere che a Genova, perché alzi la mano chi in quel tragico ponte spezzato non ha visto una metafora che allude all’intero Paese e la Superba, città maestosa e flagellata, è da decenni lo specchio impietoso che riflette lo stato di salute, o più spesso di avanzato morbo, del Paese intero: indica e disvela.

Quegli agghiaccianti spezzoni a picco sul vuoto, resti non di un ponte come tanti ma del simbolo orgoglioso dell’Italia miracolosa e miracolata, sono l’ultima palata di terra sul Paese del boom, della mobilità fisica e sociale, del miraggio di una vita migliore per tutti e dei conflitti durissimi per ottenerla davvero. Quel Paese è defunto da tempo, ma come le stelle morte ha continuato a emanare una luce sempre più fievole fino al ferragosto 2018, quando l’ultimo raggio, il Ponte del grande ingegnere Riccardo Morandi, grande nonostante tutto, grande nonostante il probabile e nefasto errore, si è spezzato dimostrando così a tutti che l’Italia intera ha oggi un cuore marcio.

A Genova, terzo vertice del triangolo industriale sin dall’ 800, fecero il loro fragoroso debutto i protagonisti del decennio a venire, nell’estate del 1960. Protestavano contro il congresso del partito neofascista, il Msi, per la prima e ultima volta in una maggioranza parlamentare, organizzato nella città medaglia d’oro della Resistenza. Fianco a fianco con i camalli del porto sfidarono la temuta celere per giorni, sospesero d’autorità il congresso, affossarono il governo Tambroni. Erano antifascismo, e il genovese Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, diede fuoco di persona alla miccia, il 28 giugno, con parole tanto chiare quanto incendiarie: «Dirò chi sono i nostri sobillatori: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravatta, sono i torturati della Casa dello Studente». Ma dietro l’antifascismo c’era altro, c’era di più. C’era una generazione di giovani operai e di studenti che voleva tutto e lo voleva subito. Indossavano per divisa le magliette a strisce orizzontali bianche e blu o bianche e rosse che con i loro colori squillanti erano già un simbolo del boom. Primo Moroni, uno dei più lucidi protagonisti di quegli anni, che da Milano era accorso a Genova in quei giorni, descriveva così, decenni più tardi, quei giovani ribelli: «Eravamo tutti giovani, generosi e intransigenti, portavamo i jeans, avevamo il mito dell’America e siccome i soldi in tasca erano pochi ci vestimmo con delle magliette comprate per 300 lire nei grandi magazzini. Non ci interessava una vita passata solo lavorando, preferivamo guadagnare di meno ma avere più tempo libero, però quando ci fu da protestare non ci tirammo certo indietro».

Tra le città del triangolo, Genova fu forse quella meno interessata dal miracolo e dalla fluviale immigrazione interna che affluiva lì meno che a Milano e Torino, ma che comunque ridisegnò la geografia sociale soprattutto dei quartieri intorno al porto. In compenso, in quegli stessi anni, fiorì lì la migliore scuola moderna della canzone italiana, quella di Paoli, Tenco, Lauzi, De Andrè, Fossati. Genova non era solo fabbriche e porto e conflitto sociale: era anche il sogno degli anni ‘ 60, era le magliette a strisce e Sapore di sale, la città italiana più attenta al situazionismo francese, capace di intrecciare comunicazione e militanza, cultura pop e impegno rivoluzionario più di qualsiasi altra piazza nel belpaese. La lunga estate musicale morì a Sanremo all’inizio del ‘ 67 col suicidio di Luigi Tenco.

Il decennio invece, annegò nel fango il 7 ottobre 1970. Non fu una bomba d’acqua ma un bombardamento a tappeto. In meno di 24 ore, tra il 7 e l’ 8 ottobre si rovesciarono sulla città 948 mm di pioggia: più di quanto sia mai successo in Europa. I torrenti esondarono uno dopo l’altro. La piena del Bisagno fu la più micidiale. Dalle colline defluirono a valle fiumi di fango, travolgendo macchine e passanti, inondando case e cantine. Le vittime furono 44, gli sfollati oltre 2mila, i danni pari a 130 mld di vecchie lire. Le disgrazie di Genova non sono mai attribuibili solo al destino cinico e baro, che pure ci mette spesso il suo artiglio. Nessuno avrebbe potuto fermare il diluvio dell’ottobre 1970. Molti, moltissimi avrebbero potuto limitarne le devastanti conseguenze. La colata di fango era conseguenza diretta del disboscamento cieco e selvaggio delle alture che sovrastano la città, la portata distruttiva delle esondazioni fu moltiplicata dalla mancata pulizia dei letti dei torrenti essiccati, trasformati in discariche a cielo aperto, la reazione dell’amministrazione alla situazione d’emergenza fu lenta e in alcuni casi irresponsabile. Sottopassaggi e ponti sui torrenti non furono chiusi, finché fango e acqua non travolsero automobili e passanti.

Era Genova, ma non solo Genova. Scriveva sul Giorno il grande giornalista Italo Pietra, quando ancora nelle strade della città ragazzi e ragazzini arrivati da ogni parte d’Italia combattevano col fango: «Le troppo frequenti alluvioni dicono le stesse cose al Nord, al Centro e al Sud. Dicono che la montagna è sempre stata troppo povera e trascurata per non essere un punto debole del nostro paese; dicono che l’alluvione, mal di montagna, discende da decenni di ingiustizia sociale, di privilegi anacronostici, di scelte disastrose».

Storie di ieri, di un’Italia che nell’ebbrezza del miracolo aveva dimenticato particolari come la sicurezza del territorio o la prevenzione? Mica tanto. A Genova e in Liguria le alluvioni si sono susseguite, inesorabili, nei decenni successivi, con frequenza e gravità crescenti. Il 3novembre del 2011 le piogge eccezionali gonfiarono di nuovo i torrenti e il 4 novembre, proprio all’ora dell’uscita dalle scuole, il Fereggiano uscì dal proprio letto e invase Marassi, seguito a breve dal Bisagno, uccidendo sei persone tra cui due bambini. Era un disastro annunciato. Meno di dieci giorni prima, il 25 ottobre, l’alluvione aveva fatto 12 vittime nelle Cinque Terre, sempre in Liguria e stavolta il nubifragio era atteso e previsto. L’amministrazione non chiese alle scuole di rinviare l’uscita nonostante lo stato di calamità preventivato. Lo “scolmatore” del Fereggiano, progettato proprio per evitare esondazioni, non era stato realizzato. La sindaca Marta Vincenzi, Pd, dichiarò il giorno dopo in tv: «Porterò per sempre le vittime di questo disastro sulla coscienza». Il peso non le impedì tuttavia di ricandidarsi alle primarie, perdendole, l’anno successivo. Per i fatti del 2011 è stata condannata a cinque anni con sentenza confermata in appello il 23 marzo scorso.

Neppure la prevenzione si è giovata delle triste esperienza. L’alluvione si è ripetuta, in forme anche più gravi anche se fortunatamente con un bilancio meno tragica, una sola vittima, nel 2014: danni per 250 mln di euro e una città in ginocchio. Senza neppure il tempo di rialzarsi prima dell’ennesima esondazione, nel 2016. Dopo il crollo del ponte e in una situazione logistica che non è migliorata, l’unica, in attesa dell’autunno, pare sia incrociare le dita e sperare che quest’anno non piova.

Se a Genova, nel 1960, una intera generazione era entrata in scena altrettanto successe 41 anni dopo, di nuovo in estate, ma con esiti opposti. Come shock e impatto internazionale quel che successe a Genova nei giorni del più tragico tra i G8 non fu meno devastante del grande ponte rovinato su case e capannoni tre giorni fa. La violenza insensata della polizia nelle strade, i pestaggi contro ragazzi addormentati nella scuola Diaz, quando le manifestazioni erano già terminate, le torture a Bolzaneto rivelarono che il decennio dell’ennesima grande illusione, quella sulla globalizzazione felice, era terminato ma proiettarono anche nel mondo intero l’immagine non di una città ma di un intero Paese in cui la democrazia sostanziale vacillava. Tanto da poter essere “sospesa”, senza alcun motivo, per 48 ore.

Quella mattanza non è mai stata realmente punita, e neppure, cosa più grave, chiarita o spiegata. Nessuno sa né probabilmente saprà mai chi e perché diede quegli ordini dissennati. Chi decise di nascondere nella scuola dove dormivano i manifestanti bottiglie molotov per giustificare un’irruzione ingiustificabile. Chi disse ai poliziotti di usare il pugno di ferro quando ogni emergenza era finita, chi permise le torture nella caserma di Bolzaneto.

La politica, quella del centrodestra appena arrivato al governo ma anche quella dei partiti di centrosinistra all’opposizione che temevano di inimicarsi un’opinione pubblica abituata a parteggiare sempre e comunque per la polizia, scelse di non sapere. Preferì derubricare il fattaccio in una serie di processi che potevano, forse, chiarire le responsabilità esecutive, ma non spiegare e chiarire. La politica tutta decise di rimuovere.

Gli anni ‘ 60 erano cominciati a Genova, nel luglio 1960, con magliette dai clori squillanti a segnalare la vitalità del decennio nascente. Il declino della politica italiana, forse, è iniziato ancora a Genova, nel luglio 2001, nella torva notte delle torture ancora inspiegate.