Ma lui mi raccontava le cose come Benigni le raccontava a quello che interpretava suo figlio nel film “La vita è bella”. È così che ho saputo cosa fosse la mafia. Quando ero piccola papà mi trasportava in una valigia rossa, per paura che mi potesse succedere qualcosa». Oggi sulla morte del magistrato si è aperto un nuovo spiraglio. L’arma che ha sparato – un fucile calibro 12 – è infatti stata ritrovata nel catanese. Una scoperta che la Dda di Reggio Calabria ha tenuto nascosta fino al 9 agosto, anniversario di quel delitto.

Ventisette anni dopo il suo omicidio, un nuovo spiraglio si apre per fare luce sulla morte del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro, suo paese natio, mentre studiava le carte del maxi processo contro Cosa Nostra, nel quale avrebbe dovuto rappresentare l’accusa in Cassazione. L’arma che ha sparato – un fucile calibro 12 – è stata ritrovata nel catanese. Una scoperta che la Dda di Reggio Calabria ha tenuto nascosta fino al 9 agosto, anniversario di quel delitto, quando ha annunciato pubblicamente il nuovo indizio. «È il segno che le indagini su mio padre stanno andando avanti», spiega al Dubbio Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato e componente, nella scorsa legislatura, della Commissione parlamentare antimafia. Che racconta la vita con suo padre, la mafia e la via per il riscatto del sud dalla criminalità organizzata.

Cos’ha provato quando ha saputo del ritrovamento dell’arma?

È stata una notizia che non mi aspettavo in questo momento. Mi ha fatto molto piacere, soprattutto perché conferma ciò che ho più volte sostenuto, ovvero che la Procura stava proseguendo nelle indagini sull’omicidio di mio padre e che la promessa fatta dal procuratore Federico Cafiero De Raho e portata avanti dall’aggiunto Giuseppe Lombardo e ora dal procuratore Giovanni Bombardieri – dare verità e giustizia alla mia famiglia e a tutti i calabresi – non fosse solo parole, ma un fatto concreto. È stata un’emozione forte, si alternano vari stati d’animo, anche perché è arrivata nell’anniversario della sua morte, un momento molto particolare per noi. Ma mi ha confermato uno dei più grandi insegnamenti ricevuti da mio padre: bisogna avere fiducia nelle istituzioni e nella magistratura. Una fiducia evidentemente ben riposta. Non avevo dubbi, ma quando passano tanti anni, magari, si arriva a provare anche la sensazione di essere abbandonati. Io, invece, posso

Questo ritrovamento cosa dimostra?

Va a rafforzare la tesi da sempre portata avanti dalla procura di Reggio Calabria: sicuramente c’era un legame tra mafia e ‘ ndrangheta e sicuramente ci saranno dei diversi livelli, come più volte ipotizzato anche da Lombardo. Penso ad un quadro un po’ più ampio, nel quale si inseriscono l’omicidio Scopelliti e altri fatti di quel periodo. Lo ringrazio per l’attenzione che riserva ogni volta, all’interno delle sue indagini, a mio padre.

Chi era Antonino Scopelliti?

Oltre ad essere un magistrato, era una persona molto umile, molto riservata, che riusciva a trasmettere i suoi valori a chiunque lo circondasse. Ma era soprattutto un calabrese, un uomo orgoglio- so, testardo, che credeva nelle potenzialità della Calabria. Si arrabbiava molto quando la sua terra non riusciva ad esprimere i suoi lati migliori. Credeva molto nei valori della Calabria e appena aveva un minuto libero si precipitava lì. È vero che era partito, ma era partito per tornare.

Cosa ricorda del suo omicidio?

Avevo sette anni all’epoca. Ho un ricordo indelebile del momento in cui ho appreso la notizia. Io e la mia famiglia lo abbiamo saputo dal telegiornale: ci preparavamo per la cena, stavamo apparecchiando. Le informazioni correvano velocissime: la giornalista parlava di un attentato, di Campo Calabro, parole che ci hanno dato immediatamente il senso di quello che era successo. Il cuore di tutti noi si è fermato.

Avevate mai pensato che potesse accadere?

Sapevamo che faceva un lavoro a rischio e che si trattava di un periodo non particolarmente tranquillo. Aveva con sé le carte del maxi processo ed era seduto su una polveriera. Era consapevole anche lui dei rischi, ma non credeva di correre pericoli giusto in Calabria, che era il luogo in cui si sentiva più al sicuro. E poi aveva un’idea particolare sulle scorte: non voleva che accanto a lui qualcuno potesse essere in pericolo, che potesse morire. A noi raccontava solo le cose belle del suo lavoro, non le preoccupazioni o quelle cose che gli sembravano cose più grandi di lui. Tendeva molto a rassicurare. Ricordo sempre il sorriso, quasi mai a chiedere aiuto. Papà caratterialmente era così. Raccontano alcuni amici che un giorno, mentre facevano il bagno sulla Costa Viola, videro galleggiare un sacco della spazzatura, senza capire subito cosa fosse. Papà pensò fosse una bomba destinata a lui, così si lanciò verso la busta per mettere al riparo gli amici. Aveva questa eccessiva protezione nei loro confronti, come nei miei. La sera precedente alla morte, però, sembrava quasi avesse avuto qualche sentore: ci tenne molto a parlarmi per telefono.

Riusciva sempre a mantenere quella apparente serenità?

L’unica volta in cui l’ho visto non sereno è stato quando ha saputo dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. La cosa lo colpì molto e lo raccontava in modo teso. Ma a parte la telefonata la sera prima della sua morte, non avevamo molti motivi per credere che fosse preoccupato. Certo, sapevamo quanto fosse rischioso il lavoro per il maxi processo, ma non pensavamo che il pericolo fosse così imminente.

Lei, da bambina, percepiva i rischi che suo padre correva?

Sapevo perfettamente che papà era in pericolo. Ma lui mi raccontava le cose come Benigni le raccontava a quello che interpretava suo figlio nel film “La vita è bella”. È così che ho saputo cosa fosse la mafia. Quando ero piccola papà mi trasportava in una valigia rossa, per paura che mi potesse succedere qualcosa. Qualche anno prima venne uccisa la figlia del giudice Alfonso Lamberti e quella notizia lo colpì molto: i killer spararono consapevoli che ci fosse la bimba in auto, ma incuranti della cosa. Così quando ero nella valigia sapevo che, nel mio piccolo, contribuivo ad aiutare papà a tenere al sicuro la famiglia dai delinquenti. E sapevo che quel rinunciare al gelato insieme o ad un bagno al mare era funzionale a trascorrere più tempo con lui. È stato molto bravo in questo racconto e a veicolarlo come se fosse un modo tutto nostro per tenere insieme e salvaguardare la nostra famiglia. Era molto protettivo.

Cosa sapeva una bambina di sette anni della mafia?

Sapevo che c’erano delle persone cattive, senza dignità, senza onore, che facevano del male ai bambini, alle persone pulite, indistintamente. Forse le mafie erano per me quello che per un bambino normale è l’uomo nero. Ma papà mi diceva che c’era un modo per sconfiggere questo mostro: mi raccontava l’impegno dei suoi colleghi, mi diceva che molte persone lavoravano per questo e che c’erano i buoni, non solo i cattivi. Me ne parlava in maniera serena, come farò con mia figlia. Non nascondendo nulla della crudeltà della mafia, ma comunque veicolandola in un racconto. Avevo a fianco una persona che conosceva molto bene la sofferenza: era stato oggetto di minacce, aveva visto morire tanta gente, ma riusciva a raccontarla senza farsi prendere dal panico.

La mafia è ormai diventata oggetto privilegiato della narrazione del sud. Quale pensa sia il modo giusto per parlarne?

Proprio quello utilizzato da mio padre con me. E credo che sia utile e necessario parlarne. Con la fondazione intitolata a papà ho promosso diversi progetti nelle scuole, dalle università alle scuole elementari. Questo perché non credo ci sia un’età giusta per iniziare a pensare cosa siano le mafie. Crescendo le vediamo anche nelle piccole cose, nel bullo a scuola, che può rappresentare quello che è il modo di fare del mafioso. Ma se tu, fin da piccolo, impari a fare squadra e a crescere coi valori della solidarietà, oggettivamente riesci a porre un limite alla mentalità mafiosa e a sapere come fare per sconfiggerla. Il grosso della mafia è violenza, ma c’è anche il comportamento, il modo di pensare, il mettere davanti la furbizia rispetto alla competenza, veicolando l’immagine del più forte e del più violento. Bisogna iniziare sin dai bambini a spiegare che c’è un modo per sconfiggere tutto questo, con l’esempio e opponendosi a questo mondo deviato.

Bastano le parole?

La valorizzazione del territorio è un altro modo per opporsi alle mafie. Bisogna far rimanere in Calabria le sue energie positive, con il ritorno al territorio delle persone oneste, che devono pretendere le cose giuste. Non dalla mafia, ma dai politici per bene. Bisogna far capire che il territorio è impegnato e far valere le persone oneste, senza raccomandazioni. La nostra terra è in grado di reagire e ha la consapevolezza di se stessa. Ma siamo abituati ad una narrazione deviata della Calabria, tanto che spesso siamo noi stessi ad accollarcela e a farla nostra con i comportamenti. La prima cosa successa dopo essere state eletta, esclusi i complimenti di rito, è stato chiedermi una marea di raccomandazioni. Io mi impegno per il territorio, ma non posso farlo per il singolo, perché sarebbe sbagliato. La comunità deve riuscire a fare squadra per pretendere dalle istituzioni ciò che è giusto. Poi, ovviamente, deve esserci una classe politica attenta, una classe dirigente che deve avere coraggio e mettere da parte le mele marce, senza basarsi solo sui titoli di giornale, ma facendo distinzione tra chi ha sbagliato e chi no, senza fare di tutta l’erba un fascio. Lo stesso vale per le realtà che si occupano di antimafia: tante lo fanno in maniera sana e non si può sprecare tutto il lavoro fatto per colpa di qualcuno che ha sbagliato. L’antimafia deve essere una cosa seria.

Quali sono i passi avanti fatti rispetto a quel periodo?

C’è grande consapevolezza, cosa che nel 1991 non c’era. Mafia e ‘ ndrangheta, all’epoca, erano parole sussurrate, tradotte soltanto in occhiate e varie smorfie del viso. Nel corso degli anni, grazie anche, purtroppo, al sangue versato dalle numerose vittime della criminalità organizzata, il territorio si è dimostrato più pronto a fare autocritica e a schierarsi dalla parte delle persone oneste. C’è un ragionamento importante, fatto anche dagli inquirenti: i risultati raggiunti, specie in Calabria, sono importantissimi. Da quando la parola ‘ ndrangheta è entrata prepotentemente nel vocabolario quotidiano c’è stata un’accelerazione diversa. Il paese ha visto il problema come prioritario e per fortuna molti calabresi, specie dopo il clamore mediatico dell’omicidio del vicepresidente della Regione, Francesco Fortugno, nel 2005, hanno avuto il coraggio di dire no alla ‘ ndrangheta e ad opporsi.

E quali sono ancora oggi gli aspetti in cui non si riesce a cambiare?

Sono ottimista, ma voglio ricordare la storia di Tiberio Bentivoglio, che da reggina conosco bene. Abbiamo un’icona della reazione alla violenza delle mafie. Ha un negozio in centro, in un bene confiscato, con la macchina dell’esercito sempre davanti all’ingresso, costretto ad andare in giro con la scorta, avendo subito attentati non solo contro il suo negozio ma anche personalmente. Quando lo invito a raccontare la sua storia fuori dalla Calabria ha un risalto immenso e a Reggio Calabria e dintorni viene visto come un baluardo della legalità. Ma quello che denuncia spesso è che il suo negozio – una sanitaria – fatica a decollare. Allora noi dobbiamo metterci d’accordo: o lo aiutiamo, non solo come istituzione ma come comunità, quindi facendo acquisti nel suo negozio senza aver paura di farci vedere, o lasciamo stare le strette di mano. Se dovesse fallire quel negozio allora avremo fallito tutti. Se c’è un dato negativo che percepisco è proprio questo: al pensiero bisogna far seguire necessariamente delle azioni. Sono contenta quando lo applaudono, ma lo sarei molto di più se andassero a spendere anche solo cinque euro nel suo negozio. Sarebbe un segnale, per lui e per le persone come lui, a sentirsi meno sole. È questo quello che dobbiamo imparare a fare: agire.