Vittima di una doppia ingiustizia. Da parte della ‘ ndrangheta, che lo ha estorto imponendo la propria brutalità, e da parte Stato, con le sue dita lunghe della burocrazia, impacciate e lente nei movimenti. A Giuseppe Mattiani, imprenditore calabrese giudicato vittima, poi complice e poi di nuovo vittima, è stato portato via tutto, perché ritenuto vicino alla cosca Gallico di Palmi. Dopo cinque anni di processi, spalmati sui tre canonici gradi di giudizio, lo Stato ha stabilito - due volte - che tutto deve tornare al suo proprietario. Ma a 50 giorni dall’ultima sentenza tutto è ancora fermo. Il patrimonio - quantificato inizialmente in 150 milioni di euro di beni, cifra ridotta a 35 dal perito del tribunale - è stato messo su a partire dagli anni ‘ 90, quando l’hotel Arcobaleno di Palmi, finito nel provvedimento di sequestro, si è trasformato in una società dal capitale miliardario. Tra le ricchezze portate via c’è lo storico Grand Hotel Gianicolo, 48 camere e piscina interna, gioiello super lusso di via delle Mura Gianicolensi, a Roma. Un ex monastero acquistato in contanti per 11 miliardi di lire nel 2000, soldi che per la Dda di Reggio Calabria venivano dalle tasche dei clan di ‘ ndrangheta. Un sospetto contenuto già in un’informativa del 2003 e trasformato in una richiesta di sequestro dieci anni dopo.

Ma in aula la tesi si è sbriciolata: Mattiani, hanno dimostrato gli avvocati Domenico Alvaro e Giuseppe Milicia, della ‘ ndrangheta in realtà era una vittima, avendo subito un’estorsione dalla cosca Gallico. Tutto è contenuto nelle indagini dell’inchiesta “Cosa Mia”: tre esponenti del clan hanno costretto l’imprenditore e il figlio Pasquale «a rinunciare alla metà della somma dovuta quale corrispettivo per il ricevimento di un matrimonio» organizzato nell’hotel- residence “Arcobaleno”. In primo grado la vicenda era stata interpretata in modo diametralmente opposto: quel banchetto, secondo l’accusa, sarebbe stato un regalo dei Mattiani agli «amici» del clan Gallico. A supporto della tesi le intercettazioni tra Giuseppe Gallico, già condannato all’ergastolo, il suo difensore ed i familiari: per difendersi dall’accusa di estorsione, il boss aveva ben pensato di far riferimento ad appoggi elettorali dati a Giuseppe Mattiani per la sua candidatura a sindaco del Comune di Palmi. I due, per la Dda, sarebbero stati dunque amici. In realtà, spiega al Dubbio l’avvocato Milicia, «è avvenuto tutto attraverso minacce pesantissime, su disposizione del boss detenuto, che impartiva ordini ai suoi parenti dal carcere». L’estorsione è diventata un atto d’accusa nei confronti della vittima, «tramite un colloquio che avrebbe dovuto essere circondato dalla massima segretezza, ma intercettato perché quell’avvocato era coinvolto in un’altra indagine». I Mattiani, poi, avevano commesso un altro errore: non denunciare i propri aguzzini. «Ed è questo il punto sensibile - aggiunge -: se non denunci, per il sistema giudiziario diventi prossimo a chi commette i reati».

Ma in appello la storia cambia: l’ottantenne Giuseppe Mattiani, dicono i giudici, non è colluso con la cosca. «Le affermazioni del capo cosca Gallico Giuseppe - si legge nella sentenza- non possono fondare un giudizio di pericolosità qualificata di Mattiani Giuseppe, se solo si considera che quella che viene indicata da Gallico come una offerta spontanea nel colloquio captato è stata riconosciuta quale prodotto di una costrizione operata dallo stesso Gallico», poi condannato per questo. Ma non solo: gli indizi a carico di Mattiani, scrivono i giudici, non solo non sono precisi e concordanti, «ma contraddittori» e le affermazioni di Gallico non hanno trovato conferma. Quei “favori”, si legge dunque, sono chiaramente inquadrati «nell’attività estorsiva» del clan a danno dell’imprenditore. La Corte revoca la sorveglianza speciale e decreta la restituzione di tutti i beni sequestrati e confiscati in primo grado. Una vittoria durata però solo 12 giorni, il tempo necessario alla procura generale per presentare ricorso in Cassazione, chiedendo ed ottenendo la sospensione degli effetti della sentenza d’appello fino alla fine del procedimento, applicando le norme sulle misure di prevenzione previste dal nuovo codice antimafia, entrato in vigore dopo il secondo grado.

Il Palazzaccio, a fine maggio, chiude la partita, rigettando il ricorso. Ma quei beni, sottratti ai Mattiani in una notte sola, sono ancora incartati nella burocrazia. «Un ritardo che non è un fatto eccezionale chiarisce Milicia -. Chi ha la ventura di vedersi restituiti i beni, prima di poter disporre delle proprietà, deve penare». Il provvedimento, per legge, ha efficacia immediata. Ma rimane un problema di passaggio di consegne che richiede un minimo di burocrazia, di ingranaggi da far lavorare, di responsabili da individuare. «La macchina burocratica è lentissima - aggiunge - e la sensazione è che non ci sia tantissimo entusiasmo a restituire i beni a chi ha subito dei sequestri».

Le conseguenze sono particolarmente problematiche. Perché ci sono fornitori, che aspettano davanti alle porte dell’azienda con il loro pacchetto di crediti da riscuotere - molti dei quali maturati nel corso dell’amministrazione giudiziaria - e che adesso non sanno a chi rivolgersi. E poi ci sono i dipendenti licenziati, perché troppo vicini ai Mattiani. Ma l’attesa rende difficile quantificare anche i danni. «Tra i debiti e i rapporti ricusati ci sono anche quelli bancari - aggiunge Milicia -. Il giudice ha infatti interrotto il pagamento dei mutui contratti per l’acquisto del Gianicolo, di durata ventennale, e il residuo del mutuo non è stato più pagato dagli amministratori, nonostante ci fossero i fondi in cassa. Al momento della restituzione dunque, le banche potrebbero applicare gli interessi maturati in questi cinque anni». Adesso tocca attendere. Non troppo, sperano gli avvocati, che mercoledì hanno inviato una diffida alla procura generale, segnalando il ritardo. «Non si riesce a capire nemmeno chi deve occuparsene - conclude -. Noi vogliamo solo evitare che Mattiani paghi ulteriormente per colpe che non ha mai avuto».