Da dirigente sindacale di componente socialista nella Cgil, Ottaviano Del Turco visse al fianco di Luciano Lama gli anni difficili della lotta con la dirigenza della Fiat negli anni Settanta: entrò nella Fiom guidata da Bruno Trentin in pieno “autunno caldo” e dal ‘ 71 al ‘ 74 fu il leader del sindacato metalmeccanico romano, da segretario generale aggiunto gestì la durissima vertenza del 1980, conclusasi con una drammatica sconfitta del sindacato. Oggi, in una congiuntura drammatica per la storia dell’industria più rappresentativa del Paese, in bilico dopo l’uscita di scena di Sergio Marchionne, Del Turco ricorda gli scontri di quegli anni e analizza i cambiamenti recenti.

Che cosa ha rappresentato la Fiat per l’Italia e per il sindacalismo?

La Fiat era senza dubbio l’azienda più rappresentativa della realtà metalmeccanica del Paese. Fu anche il modello esemplare per decidere quale era la natura del sindacato e quale la natura dell’imprenditoria italiana. Nel dopoguerra, l’azienda riprese il suo posto a capo del settore metalmeccanico e sfidò il sindacato a viso aperto su un terreno che ci impegnò in modo decisivo.

Più più una sfida o più uno scontro?

Per risponderle, le dico che io appartenevo a quella parte di sindacato che non riusciva a digerire l’idea che un’azienda come la Fiat, che dava un salario e un lavoro a migliaia di operai, rappresentasse un problema. Per me è stata una sfida, da accettare e da vincere. La verità, purtroppo, è che abbiamo invece perso spesso.

Perchè?

Perchè affrontavamo un gigante, ma lo facevamo coi piedi d’argilla. Nel dopoguerra, la Fiat di Valletta ha vinto con grande intelligenza la sua battaglia con il sindacato e in questa vittoria vedo una parte di responsabilità dei nostri gruppi dirigenti locali, che erano convinti di combattere una battaglia decisiva più per la loro storia personale e politica che per quella collettiva. Questo è stato il nostro errore più grande e lo abbiamo pagato caro.

A che livello di tensione era il conflitto con la dirigenza?

I rapporti erano molto complicati, perchè i dirigenti della Fiat affron- tavano il loro rapporto col sindacato con lo stesso cipiglio con cui i sindacalisti pensavano di governare le lotte operaie. Ognuno, su fronti opposti, ha contribuito a fare errori, ma chi li ha pagati più cari siamo stati noi.

Quale è stato il vostro errore principale?

Quello di stabilire con l’azienda un rapporto di conflittualità prima di tutto ideologica, con tutti i rischi che questa ideologia si ritorcesse contro chi la predicava.

Quarant’anni dopo quelle battaglie, è iniziata l’era di un amministratore come Marchionne, che ha portato la Fiat in una nuova fase.

L’arrivo di Marchionne è certamente stato un evento straordinario nella storia della Fiat. Di lui, mi ha colpito moltissimo una frase, che ha usato per commentare il rapporto con il sindacato: «Che strano è il mondo: quando vado in America gli operai mi applaudono, quando vado a Torino prendo fischi e insulti».

Come definirebbe la sua gestione dell’azienda?

Non le dico nulla di diverso da ciò che ho sempre detto mentre Marchionne esercitava attivamente il ruolo di manager. Io credo che lui sia stato una scelta non voglio dire geniale, ma sicuramente sensata e importante per la storia della Fiat, che grazie ha lui ha avuto riconoscimenti di alto livello sia in patria che all’estero.

Teme il rischio che ora, con il cambio di vertice, si diluisca ancora la centralità dell’Italia nel futuro dell’azienda?

In questi giorni si è esagerato nel paventare questo pericolo e, facendolo, rischiamo di non riconoscere al problema la giusta dimensione. Il punto, oggi, è affrontare insieme alla Fiat il problema della riconversione della sua politica industriale, delle sue relazioni industriali e del sistema contrattuale, con l’obiettivo di superare un problema come quello della diluizione del peso nazionale sull’azienda, che è però del tutto fisiologico.

Il gruppo dirigente di oggi è all’altezza del ruolo?

Speriamo lo sia: chi ora si assume responsabilità importanti dopo Marchionne si dovrà cimentare con una sfida ancora più grande di quanto sembra.

E il sindacato, invece, è stato capace di rinnovarsi?

Anche il sindacato è cambiato e credo anche che abbia fatto tesoro degli errori commessi. Le sconfitte di allora, infatti, hanno regalato al padrone una vittoria forse immeritata, ma che è stata utile a mostrare come le battaglie di quel sindacato avrebbero potuto mettere a serio rischio l’azienda e quindi anche migliaia di lavoratori.

Sembra fiducioso sul futuro dell’azienda.

Lo sono, perchè credo che sia l’amministrazione che il sindacato siano oggi abbastanza maturi. Nessuno dei due ripeterà gli errori del passato, trasformando il confronto in una guerra privata.