La prova che c’è stata la trattativa Stato – mafia? Per la Corte di Palermo, sono le parole del generale Mario Mori. Questo si legge nelle motivazioni. «Noi volevamo solo arrestare della gente che delinqueva. La trattativa, nostra con Ciancimino, era solo per vedere di sapere qualche cosa di più di Cosa Nostra e arrestare questa gente». Nella sentenza è dunque Mori che parla di “trattativa”, sono le sue parole la prova dell’esistenza della trattativa, quando lui stesso usa questo termine nel corso della sua testimonianza al processo, in Corte d’Assise di Firenze, per il favoreggiamento. La logica fattuale della Corte consiste nel fatto che il famigerato papello – che sarebbe stato consegnato ai Ros per attuare la trattiva - scritto da Riina o chissà da chi, forse non è neppure esistito. Di certo, scrivono i giudici, «non è passato dalle sue mani». Si riferiscono a Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, che «ha voluto rendere plastica la trattativa materializzandola nel papello». Quindi la stessa Corte sconfessa Massimo Ciancimino, un super testimone sostenuto fino all’ultimo dalla Procura di Palermo. Ma allora questa trattativa? Sono, appunto, le parole che il Generale utilizzò, parlando di trattativa a proposito della collaborazione che cercava con Ciancimino. Ma è sempre lui, l’imputato generale Mori dei Ros, che nel corso del dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Palermo interviene con le sue spontanee dichiarazioni per meglio spiegare il senso del termine “trattativa”, che aveva utilizzato allora, in tempi non sospetti, durante l’interlocuzione con Ciancimino.

A questo proposito la Corte non intende valutare le alternative dei sinonimi che l’imputato Mori propone per argomentare l’uso del termine trattativa, anzi osserva che «oggi Mori nella sua recente ricostruzione omette accuratamente di utilizzare il termine trattativa e tenta di ridimensionare le sue dichiarazioni proponendo diverse definizioni, che, contrariamente a quanto sostenuto, non sono affatto affini né sinonimi di trattativa». Anche se è in una di queste spontanee dichiarazioni che la Corte non tarda a definire un tentativo di sottrazione agli approfondimenti inevitabili dell’esame delle parti - che, come si legge in motivazione, Mori dichiara «Per me Ciancimino era so- lo ed esclusivamente una potenziale fonte di informazione da trattare in base al disposto dell’art. 203 cpp, che consente all’Ufficiale di Pg questi tipi di contatti».

Parliamo dei contatti che l’allora capitano dei Ros Giuseppe De Donno prima e assieme a Mori poi, stabilirono con Vito Ciancimino. L’intento di Mario Mori, nell’autorizzare prima i tentativi di De Donno, e poi nell’incontrare personalmente l’ex sindaco di Palermo, in quel drammatico periodo segnato dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, era quello di acquisire il maggior numero di elementi informativi possibili su Cosa nostra, rivolgendosi non ai soliti confidenti di poco conto, ma a chi riteneva in grado di fornire indicazioni utili a contestualizzare ciò che stava accedendo, la cui matrice causale poteva anche essere rappresentata dagli sviluppi delle oramai note indagini su mafia e appalti. Sì, perché Vito Ciancimino, in quel periodo, ancora rivestiva un ruolo nel condizionamento degli appalti pubblici e in più aveva una funzione di cerniera tra il mondo politico- imprenditoriale e l’ambito mafioso. Per Ciancimino il sistema tangentizio era connaturato all’economia nazionale e per forza di cose si sarebbe ricostituito alla fine del periodo, allora in corso, di “mani pulite”. Sulla base di questa constatazione, egli non esitò a proporre all’ufficiale un piano di lavoro nel quale lui, Ciancimino, per conto della Stato, si sarebbe inserito nel sistema illegale degli appalti al fine di un loro controllo. In pratica una sorta di agente sottocopertura di settore.

Nell’ottica di acquisire elementi utili alla prosecuzione delle indagini per giungere all’individuazione dei responsabili degli omicidi di quell’anno, in particolare per quanto attiene la strage di Capaci – i primi incontri si sono avuti dopo l’attentato di Capaci e prima di quello di via D’Amelio - De Donno ritenne che, opportunamente contattato, Vito Ciancimino avrebbe potuto accettare il dialogo. I contatti che ci furono, però alla fine non portarono a nulla. Ciancimino avrebbe voluto qualche beneficio per se’, ma la richiesta dei Ros era stata chiara: non avendo nulla da offrire, perché erano solo lì in funzione del loro ruolo professionale, dissero che Riina, Provenzano e tutti gli altri latitanti avrebbero dovuto consegnarsi a loro, in cambio, avrebbero trattato bene le loro famiglie.

Ma i contatti rimasero segreti? Non del tutto. Il codice di procedura penale, in quel caso, permette di avviare contatti con i confidenti senza necessariamente avvisare la magistratura. All’epoca la Procura di Palermo era nel caos, ci furono – come spiegato daIl Dubbio tramite l’inchiesta mafiaappalti – attriti con i Ros per quanto riguarda il loro dossier voluto da Falcone. Inoltre, tra i magistrati stessi della Procura si manifestarono aspre polemiche culminate in un documento, reso pubblico e sottoscritto da un numero significativo di sostituti, che evidenziava una forte contestazione nei confronti del procuratore capo Pietro Giammanco, in relazione alla gestione dell’Ufficio. Infatti, appena si insediò il nuovo procuratore capo Giancarlo Caselli, il capo dei Ros Mario Mori gli fece il resoconto degli incontri effettuati con Vito Ciancimino. Il magistrato non ebbe nulla da obiettare e invitò i Ros a proseguire anche quando Ciancimino fu arrestato. Il 22 gennaio 1993 il capo dei Ros svolse il colloquio investigativo con Vito Ciancimino, che dichiarò essere sua intenzione riaprire con loro il rapporto confidenziale interrotto dal suo arresto. Mori gli chiarì la nuova situazione per cui la prosecuzione di un dialogo poteva avvenire solo su di un piano di formale collaborazione con gli organi dello Stato e quindi con la magistratura competente. Dopo qualche tergiversazione, egli accettò.

Rientrando al Ros, trovò ad attenderlo Caselli. Il magistrato, presente anche il generale Subranni, manifestò la sua soddisfazione per questa prima apertura e gli annunciò che avrebbe iniziato al più presto l’escussione del Ciancimino. Se i Ros avessero davvero attuato la trattativa intesa come sentenziato dalla Corte, perché informavano l’allora capo della Procura Caselli? Prima di lui, ne erano informati altri. Tra i quali Liliana Ferraro, come poi lei testimoniò durante il processo. Ma anche Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, soprattutto perché Ciancimino consegnò ai Ros una bozza di un suo libro “Le Mafie”, dove sosteneva la tesi di una sostanziale convergenza di intenti operativi tra mafiosi e politici. A riguardo disse che quelli del libro erano anche gli argomenti, che voleva trattare quando fosse riuscito ad essere ricevuto dalla Commissione Parlamentare Antimafia. Egli, convinto che dietro le morti di Salvo Lima, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre la matrice mafiosa, vi fosse un disegno politico, voleva esporre questa sua tesi e preannunciò a Mori una sua lettera al Presidente della Commissione, nella quale avrebbe rinnovato la sua richiesta di essere sentito, formulata sino dagli anni ottanta.

Ritorniamo alle motivazioni della Corte: non c’è alcun dubbio per i giudici, su quale sia la prova della trattativa. «Intendevano conoscere (…) a quali condizioni Vito Ciancimino avrebbe potuto porre termine alla contrapposizione frontale “muro contro muro”», questa la conclusione della Corte che ritiene qui provata la trattativa. «Un tentativo di aprire un dialogo per arrestare il latitanti», queste le dichiarazioni di Mori, che la contesta nei termini che gli vengono attribuiti.