È comprensibile che il governo del cambiamento voglia cambiare. E non bisogna scandalizzarsi se nuove, impetuose energie, incorrano in qualche topica. Chi non sbaglia? Gli anziani hanno dietro di sé una vita di errori: lasciamo, dunque, sbagliare anche i giovani. Purché gli errori non siano deliberati, non siano cercati a tutti i costi. Detto esplicitamente: purché il cambiamento non sia vissuto come una sublime condanna da chi lo sostiene. Lasciamo perdere il decreto dignità, dentro il quale non si comprende se l’obiettivo sia migliorare il mercato del lavoro o distruggere - una forma di cambiamento, certo - il Jobs Act e le ragionevoli protezioni e flessibilità che aveva introdotto. L’auspicio è che un efficace processo emendativo in sede di conversione ne riduca il potenziale antiimpresa e anti- occupazione.Consideriamo, invece, due pilastri del contratto di governo, cioè reddito di cittadinanza e flat tax. Nell’ultimo rapporto del Ref, un breve approfondimento sul reddito di cittadinanza conclude che, dati i diversi punti in comu-È ne con il reddito d’inclusione ( REI) sarebbe illogico archiviare la misura esistente essendo, invece, preferibile potenziarla, ovviamente nella direzione desiderata dal nuovo esecutivo. Se oggi il REI raggiunge - rectius, raggiungerà - soltanto 700mila famiglie quando la povertà assoluta ne affligge 1,77 milioni, nulla toglie che, prevedendo anche le coperture, si possano stanziare ulteriori risorse per questo scopo. Anche migliorare è una forma di cambiamento. Aggiungo io, magari recuperando per l’eleggibilità alla nuova misura i requisiti patrimoniali previsti per il REI, onde evitare la vergognosa consuetudine di considerare poveri anche quelli che hanno 50 appartamenti affittati in nero ( ma risultano disoccupati). Di simile tenore i suggerimenti di un’esperta della materia quale la Professoressa Saraceno ( anche su lavoce. info).Spero vi sia qualche persona ragionevole nel governo che aiuti a trovare la mediazione tra l’esigenza di auto- intestazione di cambiamenti epocali e i crescenti bisogni dei cittadini ( considerando anche i nuovi disoccupati che si creeranno se passa il decreto dignità così com’è).Ancora più penosa è la vicendariguardante la flat tax. Nel giugno scorso, l’Istituto Bruno Leoni e Nicola Rossi, uno dei suoi esponenti più autorevoli, proposero in modo organico una riforma fiscale complessiva che,quella sì, avrebbe rappresentato un cambiamento radicalenelle relazioni tra persone e istituzioni collettive. Una proposta che l’attuale governo, con i soliti accorgimenti mediatici, avrebbe potuto fare propria ( cambiando qualche nome, qualche meccanismo, modificando qualche cifra). Erano presenti e ben descritti gli obiettivi, gli strumenti e un po’ di conti; cioè, non una raccolta di barzellette, ma un documento di lavoro su cui davvero costruire il cambiamento ( emendando il progetto in alcuni punti, sia chiaro). Macchè. Fin da subito, in campagna elettorale abbiamo assistito a un confronto muscolare su chi proponeva l’aliquota più bassa, come se la questione fosse davvero di trovare un numero magico. L’aliquota d’imposta flat è un pezzo della storia, neppure il più importante. Immaginiamo un’economia fatta da tre persone: un ricco, un povero e un amministratore disinteressato. Il ricco guadagna 1000, il povero 100, l’amministratore e il governo costano 100. Si stabilisce un’aliquota flat del 25%. Il ricco paga 250, il povero 25. Questa situazione sarebbe in contrasto con l’articolo 53 della nostra Carta. Ma poi accade che delle 275 unità di gettito, 175 vengano assegnate al povero ( a qualche titolo). Dopo quest’operazione, quindi, il ricco ha un reddito disponibile di 750, il povero di 250 ( 100- 25+ 175) e il governo costa sempre 100. Vi indignereste contro il sistema tributario non progressivo? Penso e spero di no. Questo esempio mette in luce che la ridistribuzione si fa principalmente con la spesa pubblica e non con il prelievo. È sciocco fissarsi con la progressività delle aliquote ed è sciocco scrivere e parlare di tributi senza analizzare cosa, di questi tributi, ce ne facciamo. E, per soprammercato, io mi azzardo ad aggiungere che così com’è l’articolo 53 non vuole dire molto: la progressività - peraltro requisito del “sistema tributario” e non di un singolo tributo - è uno strumento, non un obiettivo. L’obiettivo è definito nel patto politico, esplicito nella lettera dell’articolo 2 Cost., di solidarietà tra cittadini. “Quanta” solidarietà dipende, poi, dal contesto reale e contingente delle propensioni e delle sensibilità che nel corso del tempo la società esprime. Se si potesse semplificare il sistema fiscale, sia nel prelievo sia nella spesa, ipotizzando che chi può paghi alcuni servizi da sé, nella logica che al crescere del reddito lo stato non toglie di più, ma dà meno, e se si riuscisse a discernere la costruzione della previdenza dalle politiche assistenziali, si potrebbero capire meglio i costi di tali differenti circuiti, rendendo evidente chi paga e quanto paga e chi ne beneficia e di quanto si giova.
Reddito e flat-tax: potremmo far così
12 luglio, 2018 • 12:35