Sembra un dettaglio. Una delle tante possibili articolazioni della riforma penale. E invece la proposta di eliminare il divieto di reformatio in pejus, ossia l’aggravamento della pena in appello, è forse la minaccia più seria al sistema delle garanzie messa sul tavolo della giustizia. A evocare una simile compressione non è però il “famigerato” contratto di governo. È stato il presidente dell’Anm Francesco Minisci a sottoporre la questione al guardasigilli Alfonso Bonafede due giorni fa, nel primo faccia a faccia con il nuovo ministro. Un’opzione personale del magistrato di Unicost, pm a Roma, che già in passato – forse in termini meno drastici – aveva avanzato l’ipotesi? Niente affatto. Giovedì scorso l’attuale numero uno dell’Anm si è mosso con le spalle coperte da un documento approvato alcuni mesi fa dall’intero comitato direttivo centrale, il “parlamentino” del “sindacato”. Un indirizzo che vede tra i più convinti fautori il gruppo di Magistratura indipendente, quello di Piercamillo Davigo ( Autonomia & Indipendenza) e, appunto, parte di Unicost.

La modifica consentirebbe di aggravare – nella specie e nella quantità – la pena inflitta in primo grado anche quando a ricorrere in appello contro la sentenza è l’imputato. Un’ipotesi pesantissima, che limita il diritto a vedersi riconosciuti innocenti. L’obiettivo, come ricorda Minisci, è «ridurre il numero di quelle impugnazioni» a suo dire «strumentali». Chiaro esempio di sacrificio delle garanzie in vista di effetti meramente deflattivi. Con non pochi indizi di incostituzionalità.