Sarà difficile sradicare dalla visione del premier Giuseppe Conte e dei due partiti di maggioranza l’idea che la fiducia dei cittadini nella giustizia vada di pari passo con la riduzione nelle garanzie. E che sarà una dialettica impervia lo dimostrano proprio i passaggi dedicati dal capo del governo, nel suo discorso alle Camere, a processi e carcere. Dice testualmente: «Vogliamo ricostruire il rapporto di fiducia con i cittadini: non è venuta meno la domanda di giustizia ma i processi costano e durano troppo a lungo». Benissimo: e allora perché promette di essere fedele al “contratto” di governo anche sulla prescrizione, quando assicura «la riformeremo» perché l’istituto va «restituito alla sua funzione originaria» ? Perché, considerato che il criterio con cui la nuova maggioranza pensa di rivedere la prescrizione è quello di renderla inefficace già con la richiesta di rinvio a giudizio? In che modo può essere strumento di garanzia un processo che si dice di voler rendere «rapido» ma che con quella modifica potrebbe essere eterno?

E ancora: Conte sciorina obiettivi quali «la semplificazione e riduzione dei processi, l’abbassamento dei costi di accesso alla giustizia» e appunto «il rafforzamento delle garan-intesa zie di tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini». Tutti pienamente condivisibili. Ma come si coniuga il desiderio di tutelare i cittadini, di preservare il sistema di garanzie a cui sovrintende la Carta costituzionale, se nello stesso tempo si pensa da introdurre strumenti come «il daspo ai corrotti», evocato ancora dal premier e velato da un’evidente ombra di incostituzionalità? O ancora, come è possibile tenere insieme una simile idea di giustizia che «riconquisti la fiducia» degli italiani e poi ricorrere a tecniche che proprio la fiducia nella correttezza dello Stato rischiano di minare, come «l’introduzione dell’agente sotto copertura», che nella corruzione evidentemente è «provocatore ( l’infiltrato esiste già) e che pure Conte non si è guardato dall’evocare?

Ecco, in questi interrogativi c’è tutto il rebus della giustizia gialloverde. Una tensione che a guardarla pare insostenibile. Da una parte l’idea “popolare”, dall’altra la minaccia allo Stato di diritto. Un’amministrazione della giustizia che dovrebbe essere nello stesso tempo amica e tiranna. Ma appunto, Conte più di chiunque, persino più degli stessi Salvini e Di Maio, ieri è parso assolutamente sicuro di voler restare prigioniero di quell’aporia. Certo che sia possibile essere attenti ai bisogni delle persone proprio attraverso la compressione dei diritti di alcune di loro. Dei migranti, ma anche dei reclusi nelle carceri. Ai quali, anche dalle parole del presidente del Consiglio, non sembrerebbe restare che una flebile speranza di veder salvata almeno parte della riforma penitenziaria. Conte parla di «semplificazione e riduzione dei processi». Eppure nel “contratto” c’è un passaggio che mette nel mirino diversi provvedimenti varati dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e rivolti proprio alla deflazione del carico processuale: a cominciare dalla norma sull’archiviazione per tenuità del fatto e dall’idea di eliminare per alcuni gravi reati l’accesso ai riti alternativi. Novità che non piacerebbero neppure ai magistrati, ai quali pure il neo guardasigilli Alfonso Bonafede guarda con attenzione per i nuovi ruoli chiave di via Arenula.

«Ove necessario», è il passaggio testuale del discorso di Conte sul carcere, «aumenteremo il numero di istituti penitenziari anche al fine di assicurare migliori condizioni alle persone detenute, ferma restando la funzione riabilitativa costituzionalmente prevista per la pena, che impone di individuare adeguati percorsi formativi e lavorativi». Sono parole che riprendono un inciso inserito in extremis nel “contratto”, con cui si è cercato di bilanciare il chiaro stop alle misure alternative rimaste sospese nel decreto di Orlando con una qualche apertura almeno sul «lavoro» dei detenuti. Ma il riferimento pare a un lavoro all’interno degli istituti e non all’esterno, soluzione meno efficace in termini di recidiva e difficilissima da realizzare innanzitutto sul piano dei costi. Che però su questo aspetto ci sia un filo di esitazione, in Conte e nello stesso Bonafede, pare segnalato dall’autodifesa un po’ nervosa ( una delle poche) esibite dal presidente del Consiglio quando ha esclamato: «Ci accusate di giustizialismo? La certezza della pena è giustizialismo?». E poi dice che sulla stessa prescrizione si devono «dosare gli equilibri». Ci sono altri cavalli di battaglia: il più importante è nell’idea di ridurre i costi, riportata anche nel “contratto”, a partire dalla riduzione del contributo unificato. E ancora in «strumenti» come «la class action e l’equo indennizzo per le vittime di reati violenti». Fino al «potenziamento della legittima difesa». Da una parte proteggere i deboli, dall’altra armare i privati e incoraggiarli a sparare per difendersi. Una strana ispirazione popolare.