«La guerra scrive la sua storia sulla carne delle persone, in una lingua che purtroppo conosciamo bene». Senza remore o pragmatismi di ripiego, l’attivista ed ex presidente della Ong Emergency Cecilia Strada stigmatizza la guerra in tutte le sue molteplici e attuali declinazioni, in una condanna che trova formulazione estesa e aneddotica nel volume La guerra tra noi ( Rizzoli), adeguato compendio di questi ultimi quindici anni vissuti pericolosamente in accordo con le proprie idee e la personale visione di un mondo migliore.

Cecilia Strada, cosa pensa della retorica vitalistica, spesso incoraggiata da diversi governi, in relazione alla guerra?

Si tratta di un grande imbroglio. La propaganda e la retorica sono strumenti necessari a chi governa in quanto i cittadini, nel mondo, non sono naturalmente portati a sostenere guerre mentre, d’altro canto, di queste guerre pagano il conto in termini di vite, soldi, futuro rubato. La realtà che ci troviamo davanti – o almeno quella porzione di realtà che ho potuto osservare in prima persona girando il mondo in questi ultimi lustri – è che quindici anni di guerre – nonostante proclami, retorica militarista e propaganda – non hanno portato più pace ma, al contrario, hanno causato maggiori violenze e meno diritti. Parola particolarmente abusata di questi tempi è “sicurezza”: in suo nome si invadono nazioni, si erigono muri, si riducono le libertà civili e si dispiegano consistenti investimenti militari. La vera sicurezza non coincide tuttavia con quell’illusione di sicurezza rappresentata dal filo spinato ma significa garantire un lavoro, una pensione, l’assistenza medica. Molti sono gli inganni che riguardano la declinazione del concetto di sicurezza nella realtà attuale: i governi delle maggiori potenze si dicono impegnati a promuovere un mondo più sicuro anche a costo della guerra e contemporaneamente sono i principali esportatori di armi in tutto il globo. È una contraddizione significativa.

Si registra ai giorni nostri, per ciò che attiene alla guerra, un evidente divario fra una spiccata spersonalizzazione da una parte – come nel caso dei droni comandati da remoto – e un’estrema personalizzazione dall’altra, in relazione in particolar modo agli attentatori suicidi. Ritiene che le dinamiche belliche siano oggi più esiziali?

Le dinamiche di guerra sono sicuramente peggiorate. Dal dopoguerra in poi i conflitti si sono combattuti in modo particolare sulla pelle dei civili: non più, come avveniva durante le guerre mondiali, attraverso uno scontro fra eserciti avversari ma in un ambiente urbano, spesso per mezzo di bombe e altri ordigni che sono, per loro specifica natura, strumenti indiscriminati, indipendentemente dal grado di democrazia dei Paesi che li sganciano. Si tratta di guerre sporche, in cui il numero di morti e feriti tra i civili è in continuo aumento. L’uso dei droni rappresenta un caso molto particolare: l’idea che qualcuno, da un posto di controllo in New Mexico, guidi un’operazione e colpisca un bersaglio sito all’altro capo del pianeta è davvero avveniristica. Quello che però, di fatto, i droni fanno con gli omicidi mirati sono vere e proprie esecuzioni sommarie, mentre, secondo gli ordinamenti civili moderni, non si potrebbe condannare a morte senza processo. Anche noi italiani ne siamo coinvolti, basti pensare ai droni che partono da Sigonella o al loro acquisto sempre più cospicuo.

Lei appoggia gli accordi di cooperazione con la Libia?

Non posso certo condividere l’idea di respingere persone in cerca di salvezza o di finanziare con le risorse del nostro Stato la guardia costiera libica che le riprende e le conduce nei centri di detenzione, persone che già sono stati vittime innumerevoli volte da quando hanno lasciato le loro case e hanno raggiunto il mare e che noi condanniamo ad esserlo per l’ennesima volta.

Anche l’Italia si è finalmente dotata di una legge contro la tortura. Pensa che si siano fatti importanti passi in avanti nella questione dei diritti civili?

Era giusto che l’Unione Europea richiamasse l’attenzione sulla questione, anche in considerazione della nostra storia recente. Durante il G8 di Genova si è fatto largo uso di strumenti di tortura. Quando ripenso agli appunti del Social Forum del 2001, mi impressiona constatare quanto essi preludessero a gran parte degli avvenimenti che si sarebbero verificati negli anni successivi, con l’aggravarsi di una serie di fenomeni che erano evidentemente già in atto, come il crescente divario tra ricchi e poveri e lo spostamento di milioni di persone dai loro Paesi di origine a causa di disuguaglianze e povertà. Ogni tanto mi piace immaginare come sarebbe andata se si fosse investito non in guerra ma in quella costruzione di diritti che si andava delineando a Genova. Credo che sia assolutamente urgente ricominciare a farlo.

Un’inchiesta della CNN ha rivelato l’esistenza di mercanti di esseri umani in diverse città libiche. La stupisce questa tratta di schiavi nel XXI secolo? È l’unica forma di schiavitù cui assistiamo oggi?

Purtroppo non mi stupisce. Quando manca la legge, in situazioni di disperazione diffusa, trova spazio il profitto sugli esseri umani. L’asta degli schiavi, documentata dalla CNN, è agghiacciante, e non rispecchia purtroppo l’unica forma di schiavismo che si incontra ai giorni nostri. Potrebbe risultare forte utilizzare la parola schiavo, ma essa pare attagliarsi ai dannati dell’agricoltura del sud dell’Europa, che non è una problematica esclusivamente italiana, in quanto la ritroviamo anche in Grecia, Spagna e altrove. In Italia ci sono veri e propri ghetti, abitati dagli invisibili, situazioni che dovremmo trovare la forza di guardare in faccia.

Fa molto riflettere l’inziativa di Emergency di fornire anche in Italia cure gratuite...

Sono tante – non solo Emergency – le realtà che lavorano sul territorio. Sarebbe giusto calcolare quanta parte dei servizi vitali per le persone vengano forniti oggi dal terzo settore, dalle cure mediche ai pasti per indigenti, dall’accompagnamento a scuola all’assistenza al fine vita. A mio avviso, è miope da parte dello Stato delegare queste attività al terzo settore: se per alcuni giorni gli operatori si dovessero fermare, tanta gente si ritroverebbe senza cibo, senza un tetto e assistenza sanitaria.

Viene in mente il primo marzo 2010, giorno in cui quasi 5 milioni di immigrati che vivono in Italia hanno incrociato le braccia e aderito a un giorno di sciopero...

C’ero, quel giorno, in rappresentanza di coloro che non avevano realmente la possibilità di scioperare, come ad esempio gli schiavi del caporalato. Questa è un’altra delle cose che bisognerebbe tenere a mente tutte le volte che parliamo di immigrati, farsene una ragione del fatto che essi rappresentano un organo vitale della nostra società.