«Il Presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri». E’ intorno a questo articoletto della Costituzione, il 92, che si svilupperà nei prossimi giorni il percorso della crisi. E’ dal braccio di ferro che si sta svolgendo intorno al medesimo articolo che dipenderà la nascita o meno del governo gialloverde. Il caso Conte, con i suoi un po’ grotteschi curricula gonfiati, maschera infatti il vero oggetto del contendere che è il ministero chiave dell’Economia.

Il solenne art. 92, per la verità, è stato per lunghi decenni oggetto di ricerche nei “Chi l’ha visto? ” dell’epoca. La Repubblica dei partiti semplicemente lo ignorava. A decidere tutto erano i capipartito, trattan- do tutt’al più con il presidente del consiglio incaricato, ammesso che questi avesse qualche forza di suo. Il notaio del Colle si limitava a eseguire. In un paio d’occasioni la poco commendevole abitudine varcò i confini della commediaccia all’italiana, più Pierino che Monicelli. Successe quando nel 1972, in occasione della nascita del secondo Governo Andreotti, con maggioranza Dc- Psdi-Pli, Carlo Donat- Cattin, insoddisfatto del ministero assegnatogli, non si presentò al giuramento sostituendo l’alto impegno con una visitina dal barbiere di Montecitorio. Rientrò giusto un anno dopo, con un nuovo governo e occupando il posto a cui teneva. Oppure quando, dopo la famigerata ' lite tra comari' sull’Economia, quella tra il ministro del tesoro Andreatta e quello delle Finanze Formica, cadde nell’agosto 1982 il governo Spadolini, in carica da poco più di un anno. Gli equilibri tra i partiti erano così delicati che il primo premier non democristiano della Repubblica nel formare il suo secondo governo, dovette confermare tutta la squadra con una sola variazione. Fu necessario cambiare almeno il sottosegretario alla presidenza, essendo il predecessore, Francesco Compagna, trapassato. Il presidente Pertini non proferì verbo.

Il ' governo- fotocopia', come fu prontamente ribattezzato diventò bersaglio di pesantissime ironie, contribuì a squalificare la Repubblica dei partiti e durò pochissimo appena cento giorni. Ma il vento stava cambiando. Pochi anni più tardi, nel 1987, il presidente Cossiga entrò per la prima volta in campo d’impeto per sbloccare una crisi che pareva irresolubile, data l’opposizione del Psi all’incarico per il segretario della Dc De Mita. L’inquilino del Quirinale scelse un premier, il più giovane mai entrato a palazzo Chigi nella storia repubblica, Giovanni Goria, ex ministro del Tesoro, 44 anni, nessun potere reale nella Dc. La lista dei ministri che presentò al Quirinale fu riscritta dal presidente quasi per intero ed non era mai successo prima.

La svolta arrivò con Oscar Scalfaro, l’apripista dei presidentimonarchi. Dipese dalle circostanze più che dalla volontà dell’uomo. Appena insediato, la tempesta di tangentopoli e del referendum travolse la prima Repubblica. In quella fase di travagliata transizione, la sovranità scivolò in larga misura nelle mani del capo dello Stato. Fu lui a scegliere il governatore di Bankitalia Ciampi, nel 1993, come premier del governo che avrebbe dovuto gestire il Paese mentre il parlamento cercava l’accordo su una nuova legge elettorale. Fu lui a scegliere, con Ciampi e con i leader del Pds Occhetto e dell’agonizzante Dc Martinazzoli i ministri di quel governo. Quando, dopo la vittoria alle elezioni del 1994, il Polo guidato da Berlusconi vinse le elezioni impedì la nomina a ministro della Giustizia di Cesare Previti, chiacchieratissimo avvocato del premier. Dopo la caduta di quel governo, nel giro di pochi mesi, Scalfaro compilò di nuovo la lista dei ministri con il premier, indicato e poi rinnegato dal disarcionato Berlusconi, Lamberto Dini.

Il caso Scalfaro poteva essere una sorta di parentesi emergenziale e in effetti il successore, Carlo Azeglio Ciampi, tornò a un minor protagonismo. Ma nella formazione del secondo governo Berlusconi, nel 2001, mise bocca anche lui. Il Cavaliere era ancora circondato da sospetti in Europa. Serviva un garante e Ciampi indicò Renato Ruggiero, diplomatico di serie a, più volte ministro, direttore generale del WTO: l’uomo dei salotti buoni. Fu un disastro. Tra Berlusconi e Ruggiero non scattò alcun feeling, quando il ministro parlava, raccontò più tardi lui stesso, il premier lavorava sotto il tavolo di piedino per ammonirlo con eloquenti calcetti. Con i leghisti andò anche peggio. Pochi mesi e il garante indicato dal capo dello Stato era già fuori dal governo.

Quanto a protagonismo, si sa, Napolitano non è stato secon- do a nessuno. Il confine tra presidenza della Repubblica e sovranità piena lo ha varcato più volte e in piena consapevolezza. Sui ministri il suo semaforo rosso è scattato in alcuni casi di fondamentale importanza, al momento della formazione del governo Renzi, nel 2014. Renzi si era presentato con la casella del ministero della Giustizia occupata da un magistrato d’assalto, certamente tra i più efficienti ma anche tra i meno attenti alle garanzie, Nicola Gratteri. E’ probabile che quel nome per Napolitano, che ha sempre guardato con poca benevolenza il giustizialismo, non piacesse per una lista di ragioni lunga quanto un elenco del telefono. Ma per bloccarlo mise in campo un’argomentazione di carattere generale: l’inopportunità di affidare il ministero di via Arenula a un magistrato. Alla fine a essere nominato fu uno degli esponenti del Pd più vicini al presidente: Andrea Orlando. Pochi mesi dopo il problema si ripropose quando la ministra degli Esteri, Federica Mogherini, passò alla Commissione europea. Convinto che il Brand del suo governo fosse la linea generazionale, Renzi propose di sostituirla con Lia Quartapelle, 32 anni, esperienza sia politica che diplomatica pari a zero. Napolitano nemmeno prese in considerazione la surreale idea, cancellò il nome suggerito e al suo posto vergò quello del più scafato Gentiloni.

Ma ciascuno di questi presidenti, persino Scalfaro e Ciampi alle prese con Berlusconi, erano alle prese con leader per cui i buoni rapporti con i vertici istituzionali, quelli romani quanto quelli allocati a Bruxelles, erano desiderati e ricercati al punto di sacrificare molto per conquistarli. Mattarella si trova in una situazione diversa e molto più scomoda. Vedremo nel giro di pochi giorni se riuscirà nonostante tutto a incidere o se, dopo il colpo a vuoto del governo del presidente, dovrà registrare sulla nomina dei ministri un nuovo scacco.