Parlando di un noto giurista come possibile candidato a Palazzo Chigi, Claudio Petruccioli ha dichiarato in un’intervista che «nessuno conosce come lui la macchina dello Stato». Non sono pochissimi i cattedratici di cui non si potrebbe dire lo stesso. E va aggiunto che non insegnavano in lontane Università di provincia ma a Roma, alla Sapienza, da cui si può raggiungere a piedi, se non si è troppo vecchi ed acciaccati, piazza Montecitorio, piazza Colonna, il Quirinale. Alcuni di quei luminari del diritto hanno ricoperto alte cariche di governo, sono stati varie volte ministri e talora persino presidenti del Consiglio.

Qualcuno, poi, per ragioni di bottega parlamentare ( il bisogno di ingraziarsi la Lega Nord), ha introdotto nella Costituzione quel famigerato Titolo V al quale dobbiamo una parte non piccola dei nostri guai. Che siano proprio loro a lamentarsi degli apparati statali, della pesantezza della Pubblica Amministrazione, di una burocrazia costosa e inefficiente, degli enti pubblici come uffici di collocamento per disoccupati ( ben raccomandati, naturalmente) suona piuttosto strano. Certo è vero - come diceva quel tale che non si sa se fosse Giovanni Giolitti o Benito Mussolini o Winston Churchill - che «governare gli Italiani non è impossibile, è inutile», ma se uno ‘ statista’ ( si fa per dire) non è riuscito a eliminare il cancro burocratico- statale, al quale anche lui fa risalire le cause dell’elevato debito pubblico, del clientelismo istituzionalizzato, dell’umiliazione della meritocrazia, perché non esce di scena senza tanti complimenti? Il chirurgo, che «conosce bene la macchina» del corpo umano, l’homme- machine di lamettriana memoria, ma poi non riesce ad operare perché, a suo parere, il tumore è troppo avanzato e le metastasi troppo ramificate, viene invitato a lasciare il reparto, se non a dare le dimissioni. In Italia, in politica, questo non accadrà mai: si possono fare gli errori più grandi, si può persino riconoscere di averne fatti, ma si rimane sempre in panchina - come preziose riserve della Repubblica - pronti a ridiscendere in campo con alto senso di responsabilità giacché, lo si sa fin dai tempi degli antichi Romani, «salus rei publicae suprema lex est».

Il 6 gennaio 2015, su byoblu, è apparso un articoletto, Amato confessa: ecco come vi abbiamo portato in Europa, in cui si poteva leggere: «Allucinante confessione di Giuliano Amato, deposta come se si trattasse di una marachella qualunque e non della vita di milioni di persone: sapevano, li avevano avvisati, avevano previsto tutto ma andarono avanti lo stesso! Portarono questo paese nell’euro pur consapevoli che difficilmente avrebbe funzionato. Ma non è una lezione di storia, non è il racconto della decadenza del Sacro Romano Impero. E’ qualcosa che sta succedendo adesso, qui. Andrebbe raccontato con ben altro sentimento di contrizione, non con questa nonchalance. Hanno giocato. Hanno perso, ma il debito di morte dobbiamo pagarlo noi. Siamo alla follia! Ecco le sue allucinanti parole». Cliccando si poteva ascoltare la ‘ confessione’ di Amato. I toni forti e la verve scandalistica dell’articolista non sono di mio gusto - come non lo sono di questo giornale - e, dopo aver visto il video, ammetto di aver ammirato un politico disposto a riconoscere con tanta lucidità i propri errori. Ma ciò detto non sarebbe stato il caso di farsi dimenticare, invece di restare, sempre e comunque sul sul palcoscenico della politica - o della Corte Costituzionale che, nel nostro paese, spesso non indossa la giacca nera dell’arbitro imparziale ma la maglietta del giocatore?

Al suo vice laico, un caro amico e collega dello scrivente, che minacciava di dimettersi dall’Istituto in cui svolgeva onorevolmente il suo lavoro editoriale, il Direttore fece notare, tra il divertito e lo spazientito: «Caro professore, non pronunci mai la parola dimissioni dinanzi a un democristiano come me!». C’è, però, un’altra parola che in Italia è tabù, a destra, a sinistra e al centro: pensionamento! A esorcizzarne il fantasma è una political culture che diffonde un clima di paura e di emergenza pari a quello vissuto dalla Francia dopo il crollo della Linea Maginot. Schiere «responsabili» di venerandi Soloni - già docenti universitari - sono pronti a ripetere le parole pronunciate da Philippe Pétain il 17 giugno 1940. «(…) je fais à la France le don de ma personne pour atténuer son malheur (…). C’est le coeur serré que je vous dis aujourd’hui qu’il faut tenter de cesser le combat (…)». Tutti sono pronti al sacrificio, a fare all’Italia ‘ il dono della loro persona’ per ‘ attenuarne i mali’, tutti ’ col cuore serrato’ cercano di ottenere una ‘ tregua patriottica’ dai partiti - in lotta continua - in nome delle urgenze nazionali e delle «richieste che ci vengono dall’Europa». Mario Monti docet!

Forse, dobbiamo malinconicamente riconoscere, per parafrasare il titolo del film dei fratelli Coen del 2007, che il nostro non è un paese per giovani. Si dirà che anche i giovani - quando ne hanno avuto l’opportunità, ad es., con Matteo Renzi - non hanno fatto miracoli ma, vivaddio!, sono appunto giovani e, senza voler fare del giovanilismo a buon mercato, i loro eventuali e possibili errori saranno lezioni che, se intelligenti, non dimenticheranno tanto facilmente. Si ricordi, tuttavia, che al tempo degli allori europei, Matteo Renzi dovette la sua popolarità anche a una faccia ‘ fresca’ e senza rughe, al sospiro di sollievo che si levò dal 40% degli elettori: «Finalmente un viso nuovo!». Finalmente un quarantenne in un partito in cui giovani sono i sessantenni - Fassino, Veltroni, Bersani!

Sono convinto che l’ondata qualunquistica e populistica che si va diffondendo ( e avverto subito che ‘ qualunquismo’ e ‘ populismo’, per me, non sono quegli orrendi spettri che turbano le notti della diarchia del Foglio quotidiano) la si debba anche al fastidio di ritrovarsi ogni giorno sui teleschermi una classe politica immarcescibile, formata da elementi che - privi di stile e di buongusto - non si rassegnano al destino che attende tutti i mortali, il Sunset Boulevard. In altri paesi, muoiono ( politicamente, se siamo in democrazia) gli uomini ma restano i partiti: da noi muoiono i partiti ma restano gli uomini, come mostra, tra i tanti, la biografia di Romano Prodi, dalla Dc all’Ulivo al Pd, anche lui ( soprattutto lui) fidata ‘ risorsa della Repubblica’, nonostante la vicenda Sme.

Non si può certo imporre per legge che nessuno si occupi più di ‘ affari pubblici’ una volta varcata la soglia dei sessant’anni ma non sarebbe male chiedersi come mai dei grandi protagonisti della politica internazionale - penso a Gerhard Schröder, a Tony Blair, a George W. Bush - non se ne sa più niente mentre da noi c’è chi, a ottant’anni già suonati da un bel po’, sogna di finire a Palazzo Chigi - in un governo del Presidente - quasi si trattasse di un emeritato universitario ovvero di un riconoscimento politico alla carriera.