«Per quale motivo ci convoca in assemblea? Per raccontarci per l’ennesima volta ciò che ha già deciso da solo e ha già annunciato ai media?». L’ultimo colpo di scena di Luigi Di Maio, indicare al Presidente della Repubblica - di comune accordo con Matteo Salvini - l’ 8 luglio come data ideale per il ritorno alle urne, fa andare su tutte le furie buona parte del gruppo parlamentare M5S. Deputati e senatori pentastellati, stremati da due mesi di gestione solitaria della linea politica, si sentono presi in giro. «Si può anche decidere di chiedere elezioni in estate, ma bisogna prima discuterne insieme», si sfoga un eletto. «E che campagna elettorale credi di fare, dopo tutti questi forni aperti?». Il sogno di un governo grillino è andato in frantumi, e con lui la fiducia nelle capacità di leadership di Di Maio. In tanti adesso sperano che il capo politico paghi dazio per la sua conduzione «fallimentare» delle trattative e che Davide Casaleggio e Beppe Grillo chiedano al leader un passo indietro. «Lui è bruciato», dice un deputato, «solo se tornasse in campo Alessandro Di Battista riusciremmo a non perdere voti». Già, i voti. Perché è questo l’incubo che anima le notti di chi è stato eletto all’uninominale ( e senza paracadute) e di chi ce l’ha fatta nonostante fosse terzo o addirittura quarto in lista. I miracoli, si sa, è difficile si ripetano due volte e chi rischia il seggio vuole giustizia: la “testa” del “segretario”. Il dissenso, però, non trova un canale politico. I delusi limitano la loro azione a qualche intervento “acceso” in assemblea, ma nessuno osa esporsi troppo contro il capo per paura di finire nell’elenco dei dissidenti e non essere ricandidati. «Ho confermato l’affitto di casa a Roma, ma solo fino a giugno perché non sappiamo di che morte moriamo», racconta un parlamentare della vecchia guardia. E visto che nessuno trova il coraggio di sfidare a viso aperto Luigi Di Maio, i malpancisti sperano in un intervento diretto di Grillo, il “Garante”, l’unico ad avere «il potere di interpretazione autentica, non sindacabile, delle norme», come recita lo Statuto del Movimento. L’unico in grado, alle brutte, di sfiduciare il capo politico e incoronare Alessandro Di Battista. Perché è quella l’unica alternativa su cui sperano i grillini adirati: il ritorno del leader scapigliato, rimasto politicamente vergine, grazie al suo passo indietro. Dibba è il solo in grado di fare ombra a Di Maio, come ha dimostrato nei giorni dei due forni pentastellati. Mentre l’aspirante premier tesseva la sua trama, un giorno con Salvini e l’altro con Martina, l’ex deputato romano provava a sabotarne il lavoro con post al vetriolo su Facebook. Non solo contro Silvio Berlusconi ( «il male assoluto» ), ma anche contro il capo del Carroccio, il partner privilegiato del Movimento, definito «Dudù», il cane del Cavaliere. «Non credo che Alessandro abbia detto quelle cose per sabotare qualcosa, sappiamo che lui ha un certo modo di esprimersi», era stata la reazione imbarazzata di Di Maio. «Ha tutta la mia stima e libertà di dire quello che vuole, ha iniziato un altro percorso. Le battute che fa lui non le so fare e non so far ridere come fa lui», aveva argomentato, paragonando il compagno di partito a un comico. Ma c’è un altro comico che il capo politico deve tenere d’occhio, che negli ultimi giorni lo ha messo in seria difficoltà, rinnegandone in qualche modo la linea politica: Grillo, il fondatore, che nonostante il ruolo defilato continua a tenere le chiavi della macchina. Riproponendo il referendum sull’Euro, il “Garante” ha implicitamente bocciato la gestione “normalizzatrice” voluta dal leader di Pomigliano e giocato di sponda col passionario Dibba, considerato dalla base il custode dello spirito movimentista. Per questo Di Maio ha fretta di tornare al voto, teme che il tempo giochi contro di lui. Un anno di legislatura, come vorrebbe Mattarella, equivarrebbe alla morte di ogni ambizione personale e politica: per essere semplicemente ricandidato, il capo dei 5 Stelle dovrebbe formalmente chiedere la cancellazione della regola sui due mandati. Ma a vigilare sull’ortodossia c’è sempre lui, Beppe, che avrebbe gioco facile a controbattere: «Noi abbiamo due, tre regole e tra queste c’è la regola dei due mandati che non è in discussione», le stesse parole con cui Di Maio ha risposto poco tempo fa Fabio Fucci, sindaco grillino uscente di Pomezia, silurato per aver già svolto un mandato all’opposizione ( di un anno) prima di occupare lo scranno più alto del Municipio. Dibba per ora sta in panchina. Ma ha già cominciato il riscaldamento.