La sorte della legislatura è nelle mani del leader che più di ogni altro è uscito sconfitto dalle urne, Matteo Renzi. È il primo paradosso.

A decidere per un ritorno quasi immediato alle elezioni potrebbe essere il partito che più di tutti teme il voto e che più di tutti ha da perdere se le urne si riapriranno a settembre e forse addirittura a giugno, il Pd. È il secondo paradosso. Alle origini di questi paradossi, che configurano una situazione letteralmente inaudita del quadro politico, c’è l’anomalia rappresentata dal Pd. Come il professor Cacciari non si stanca di ripetere in televisione una sera sì e l’altra pure, il Pd non è mai davvero nato. Ha oscillato per un decennio tra identità diverse, a tratti opposte, senza riuscire a definire i propri connotati politici. In queste condizioni e nel giro di pochi anni Renzi il Salvatore ha modellato quel non- partito a propria immagine e somiglianza. Lo ha fatto sfruttando la legge elettorale per riempire le Camere, soprattutto la roccaforte del Senato, di fedelissimi. Ma lo ha fatto anche in senso ben più profondo, intervenendo sulla mentali- tà e le aspettative di una parte sostanziosa dell’elettorato del Pd.

Renzi lo sconfitto resta dunque la figura centrale non solo nel poco che resta dell’apparato del partito ma anche nella sua base elettorale. Tuttavia il prezzo dell’eventuale accordo con M5S sarebbe proprio la sua uscita di scena. Sarebbe in tutta evidenza il nuovo “gruppo dirigente” coagulatosi intorno alla decisione di uscire dall’isolamento iniziale, da Franceschini a Martina a Orlando, a gestire il partito dopo un passo tanto rilevante. Il congresso, a quel punto, sarebbe quasi una formalità, delegata a ridisegnare i connotati del Pd post- renziano. Va da sé che Renzi non intenda accettare il sacrificio, che oltretutto non metterebbe affatto il partito al riparo da futuri disastri. Rendere “post- renziano” un partito in cui il renzismo è la sola identità potrebbe rivelarsi una missione impossibile e dal costo proibitivo. In tempi diversi la situazione sarebbe stata diversa, sia perché l’interesse di partito avrebbe prevalso su quello del singolo leader, sia perché le uscite di scena erano temporanee, come provano le numerose resurrezioni dei leader della Dc a partire da Amintore Fanfani, disarcionato e tornato in auge più volte. Oggi però Renzi non può permettersi di mollare la presa, e del resto si trova in una situazione simile, ed è l’ennesimo paradosso, anche la sua controparte, Luigi Di Maio, che le elezioni hanno invece incoronato con l’alloro. Anche lui non può accettare di farsi indietro, passaggio senza dubbio utile e probabilmente imprescindibile per dar vita a una maggioranza con il Pd. A pagare il prezzo dell’intesa, finendo nell’ombra, sarebbe in questo caso proprio lui.

Resta il secondo paradosso: quello per cui proprio il Pd, che dalle elezioni ha tutto da perdere, potrebbe renderle inevitabili. Anche in questo caso tutto ruota intorno a Matteo Renzi, al quale ormai il Pd va stretto per diverse ragioni. Nel suo partito, la libertà di movimento dell’ex segretario è ormai limitata: può bloccare scelte ma non imporle. Senza contare il particolare per cui può detenerne la leadership di fatto ma non quella ufficiale. Ma soprattutto il Partito democratico non è più strumento adeguato per la strategia che ha in mente, ripetere in Italia il colpaccio di Macron oltralpe calamitando una parte sostanziosa dei voti ancora nei forzieri di Forza Italia. Se i risultati elettoriale avessero consentito la nascita di un governo Pd- Fi quel travaso sarebbe stato quasi automatico al termine dell’esperienza di governo. Ora le cose stanno diversamente e il Pd, col suo congresso infinito in corso da dieci anni, con i suoi potentati in stato di conflittualità permanente, con i principali alleati dell’e segretario che hanno sciolto i vincoli, è solo un impaccio. Probabilmente non è esagerato sospettare che a Renzi delle sorti elettorali del Pd importi poco. Gli interessano piuttosto quelle della nuova formazione che ha in mente, e che per sottolineare l’accostamento col presidente francese leader di En Marche potrebbe chiamarsi In Movimento.

Quel progetto, però, ha bisogno di qualche tempo per decollare. Il momento perfetto, trattandosi di una forza che mira a nascere da subito in un contesto europeo più che italiano, sarebbero le elezioni europee di maggio. Alle sue condizioni, Renzi avrebbe tutto l’interesse a tenere in vita la legislatura sino a quel momento e certamente ci spera. Ma che quelle “sue condizioni”, in concreto un governo istituzionale senza Di Maio premier per arrivare al 2019, risultino effettivamente praticabili non è affatto facile.