Il processo sulla “trattativa” Stato- mafia, conclusosi la scorsa settimana con le pesanti condanne degli allora vertici del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri, i generali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, offre all’interprete e all’operatore del diritto argomenti di riflessione sulla disciplina codicistica relativa alla competenza per materia del giudice penale.

Il processo “trattativa”, com’è noto, si è celebrato davanti alla Corte d’Assise di Palermo. Il motivo del radicarsi della competenza davanti alla Corte composta anche da giudici popolari è stato determinato dal fatto che parte integrante della presunta “trattativa” era l’omicidio, avvenuto a Palermo a marzo del 1992, dell’europarlamentare della Dc Salvo Lima.

Le difese degli alti ufficiali dell’Arma avevano chiesto di essere giudicati dal Tribunale monocratico in quanto l’articolo 338 del codice penale, rubricato “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”, contestato agli imputati, è punito con la reclusione nel massimo di sette anni. Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, aveva invece chiesto di essere giudicato dal Tribunale dei ministri, in quanto il fatto per cui era accusato, la falsa testimonianza, sarebbe stato commesso in ragione dell’aver rivestito la carica di ministro della Repubblica.

La competenza veniva contestata dalle difese non soltanto sotto il profilo della composizione dell’organo del giudice, ma anche con riferimento alla competenza territoriale: se una “trattativa” fra lo Stato e la mafia era avvenuta, il luogo di consumazione del reato non poteva che essere Roma, capitale del Paese e sede del Governo.

L’omicidio di Lima era per la Procura di Palermo un «dato fondante del castello accusatorio, il primo atto del ricatto che mafia e pezzi delle Istituzioni fecero allo Stato», disse l’allora procuratore aggiunte Vittorio Teresi, esultando per la decisione del presidente della Corte d’Assise Alfredo Moltalto di respingere ogni eccezione presentata dalle difese, sposando appieno le considerazione della Procura e dando dunque il via a luglio del 2013 al dibattimento.

Con il senno di poi, un cattivo presagio per gli imputati.

Lo stesso Di Matteo, che cinque anni dopo accuserà l’Anm e il Csm di averlo lasciato solo, fu estremamente contento della decisione di Montalo, presidente “di una autorevole Corte d’assise che ha eliminato critiche pregiudiziali all’indagine radicando il processo a Palermo”.

La Corte d’assise giudica i reati più gravi e di grande allarme sociale come, appunto, l’omicidio volontario. In virtù del collegamento con l’omicidio di Salvo Lima, la competenza è passata alla Corte d’assise di Palermo, cosi chiamata a giudicare non per tale fatto di sangue ma sul reato, il 338 codice penale, che senza questo filo conduttore sarebbe stato di esclusiva competenza del giudice togato monocratico. Il 338 cp è, come stato ripetuto più volte, un reato rispetto al quale non esiste ampia giurisprudenza e che vede la necessità di definizioni di concetti squisitamente tecnico giuridici come quello delle nozioni di “corpo politico” e di “turbamento”, idonei alla sua configurazione. E’ sufficientemente attrezzato sotto questo aspetto un giudice popolare? Senza contare, poi, il condizionamento mediatico che questo dibattimento ha innegabilmente avuto, con una martellante campagna colpevolista nei confronti degli imputati.

Inoltre, bisogna ricordare l’incredibile lunghezza di tale dibattimento che ha, a memoria, ben pochi precedenti in termini di durata nella storia della Repubblica. Oltre 220 udienze in cinque anni costituiscono un vero record per un giudizio di primo grado.

Per fare un esempio, il processo alla maxi tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti” nell’indagine Mani pulite, si celebrò in sole 44 udienze ed in meno di un anno. Già questi numeri dovrebbero far riflettere. In Francia è in corso di approvazione una riforma della procedura penale che limita drasticamente il ricorso alle giurie popolari. La sperimentazione è già in atto in alcuni distretti. Da ora in poi saranno di competenza della Corte d’assise solo i reati punibili con l’ergastolo e quelli con gravi casi di recidiva. Sarebbe auspicabile che anche in Italia si aprisse un serio dibattito sulle giurie popolari, per evitare che fattispecie di reato eccessivamente “tecniche” vengano giudicate da persone non del tutto adeguate. Anche sotto l’aspetto che non “appaiano” preparate al ruolo.