La trattativa con la mafia ci fu. In due fasi: prima la condussero gli ufficiali del Ros, poi il senatore Marcello Dell’Utri. A dirlo è la Corte d’assise di Palermo, al termine di un processo durato 5 anni, con una sentenza piena di paradossi, e interpretata in modo altrettanto illogico da un festante Nino Di Matteo. Primo: come fanno notare i difensori del generale Mario Mori ( Basilio Milio) e del cofondatore di Forza Italia ( Giuseppe Di Peri), «mai la Procura di Palermo ha indicato i luoghi e le circostanze in cui gli uomini delle istituzioni avrebbero presentata la minaccia di Cosa nostra ai vertici dello Stato». Eppure boss e “intermediari” sono condannati, con pene che vanno dai 28 anni per Bagarella agli 8 inflitti al colonnello De Donno, per “minaccia a corpo politico dello Stato”. Secondo: i maggiori imputati ( sempre i boss e i loro “portavoce istituzionali”) sono condannati anche a risarcire per 10 milioni la presidenza del Consiglio. Cioè, Dell’Utri dovrebbe risarcire Berlusconi. Eppure il pm Di Matteo ha il coraggio di dire che la sentenza «dimostra l’esistenza di rapporti tra la mafia e il Berlusconi politico».

È vero che non c’è nulla che abbia senso, nell’emozionata pronuncia di Alfredo Montalto, presidente del collegio. Ma sorprende come gli unici a parlare, doverosamente, di sentenza «assurda» siano i radicali, in un comunicato in cui ricordano che «Mori e i suoi uomini, Totò Riina l’hanno pur sempre arrestato». E invece: Montalto, la giudice a latere Stefania Brambille e i 7 giudici popolari si sono convinti che pezzi di Stato avrebbero trattato con i boss stragisti. Condannato anche il teste chiave, ma non per concorso esterno, ipotesi caduta in prescrizione: Massimo Ciancimino incassa una pena di 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gian- ni De Gennaro, superiore dunque ai 5 anni chiesti dalla Procura. L’unico assolto è l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, sul quale pendeva una richiesta di 6 anni per falsa testimonianza.

È la vittoria dei pm palermitani, tutti ( tranne ovviamente l’ex aggiunto Antonio Ingroia, dimessosi dalla magistratura) presenti in aula: Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e il succitato Di Matteo. Premiata la tesi di una pressione esercitata prima dai vertici del Ros, fino al 1993, e poi dal braccio destro di Berlusconi, dopo il 1993, affinché fossero accolte le pretese avanzate, a suon di stragi, dalla mafia. Ma come fa notare il difensore del generale Mori. Eppure, come ricorda l’avvocato Di Peri, «c’erano già state precedenti sentenze che avevano respinto le stesse ipotesi per il mio assistito e per gli ufficiali dei Ros: quella sulla mancata perquisizione al covo di Riina e la pronuncia Mori– Obinu». Quei giudizi si rovesciano: la trattativa ci fu. E come detto, in due tempi distinti, con Dell’Utri che avrebbe veicolato le minacce di Cosa nostra, nel breve periodo del primo governo Berlusconi, tra maggio ’ 94 e gennaio ’ 95. «Quell’esecutivo mai denunciò quanto aveva subito», dichiara trionfante Di Matteo. Evidentemente non ha importanza, per lui, il fatto che le presunte richieste non siano mai state accolte in alcun provvedimento. Circostanza che, a voler seguire la sentenza, fa del Cavaliere un eroe dell’antimafia. Di Matteo segue invece la pseudologica delle suggestioni storiografiche: «Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico e si chiarisce dunque che i suoi rapporti con Cosa nostra vanno oltre il ’ 92». Rapporti? Sì, in cui il Cavaliere sarebbe vittima. Quisquilie.

LE CONDANNE

I vuoti logici in parte si giustificano con la mancanza delle motivazioni, che saranno depositate entro novanta giorni. Allora, forse, si comprenderà meglio il senso di alcune difformità fra le richieste dei pm e le condanne inflitte. Nel caso dei boss, è stata dichiara la prevista prescrizione per il reato ascritto a Giovanni Brusca, viene confermata la pena di 12 anni invocata per Antonino Cinà ma è innalzata di molto quella relativa a Leoluca Bagarella: dai 16 anni chiesti ai 28 comminati. Identiche a quanto atteso dalla Procura sono le condanne per Dell’Utri e il generale del Ros Antonio Subranni: 12 anni. Di poco più bassa quella per il generale Mario Mori ( 12 anni di carcere anziché 15). Il terzo ufficiale dell’Arma, il colonnello Giuseppe De Donno, è punito con 8 anni di carcere contro i 12 richiesti. Mancino come detto è il solo a poter esprimere la propria gioia, affidata all’avvocata Nicoletta Piergentili e alle agenzie: «Sapevo che c’era un giudice a Palermo, è stato smentito il teorema costruito contro di me, ma ho vissuto 8 anni di sofferenza».

I PM E LA REAZIONE DI FI

Tutti e quattro i pm si immergono nella selva di taccuini un minuto dopo la lettura del dispositivo. Vittorio Teresi dedica la vittoria «a Falcone e Borsellino», Tartaglia trova una conferma: «Abbiamo lavorato bene». Nessuno degli inquirenti dà conto però di un vulnus enorme. Di carattere logico, che rende urgentissimo il giudizio d’appello: su quello conclusosi ieri si ha l’impressione di un peso straordinario dei giudici popolari. Il vulnus è nella lunga parte della sentenza legata ai risarcimenti: il più clamoroso ammonta a 10 milioni di euro, da dividersi tra i mafiosi, Dell’Utri e i Ros, e andrà destinato alla presidenza del Consiglio. Cioè a Berlusconi. Che dunque per i giudici è vittima. Di Matteo ribalta tutto: «La Corte intanto ritiene provato il fatto che dopo il rapporto con il Berlusconi imprenditore c’è quello con il politico». Un’interpretazione temeraria che Forza Italia spiega anche «con la partecipazione del dottor Di Matteo alle iniziative dei cinquestelle» e che «sarà oggetto dei necessari passi in ogni sede».