«Abbiamo ribadito che il M5S è pronto a sottoscrivere il contratto di governo con la Lega e non con tutto il centrodestra». Le parole di Luigi Di Maio, pronunciate subito dopo il confronto con la presidente del Senato, “l’esploratrice” Maria Elisabetta Alberti Casellati, non piacciono affatto al gruppo parlamentare cinquestelle. La pazienza degli eletti grillini sta per finire. Perché il concetto «ribadito» dal capo politico non porta più da nessuna parte, suona come un disco rotto. Il forno col centrodestra non può sfornare pane finché Di Maio imporrà veti inaccettabili e quello col centrosinistra non verrà neanche acceso finché sul piatto rimarrà la premiership del giovane leader di Pomigliano d’Arco come precondizione. Il gruppo parlamentare, sempre più estraneo alle decisioni strategiche di vertice e sempre più demoralizzato, comincia a sfilacciarsi. In molti avrebbero preferito, fin da subito, tentare la strada di un dialogo coi dem, con cui «il programma è oggettivamente più compatibile», confessa un deputato. Ma non esiste assemblea in cui la linea possa essere sottoposta a discussione. Si fa ciò che decidono Di Maio e Casaleggio.

I parlamentari si aggirano in Transatlantico come anime in pena, ignari di ciò che potrà accadere a fine giornata. Ma la navigazione a vista irrita i marinai e il consenso “bulgaro” del capo politico è solo un ricordo sbiadito. L’aspirante premier può ormai contare su un numero limitato di fedelissimi: Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro e un piccolo drappello di irriducibili. Il malcontento, per ora, serpeggia solo tra i banchi, re- legato ai mugugni della vecchia guardia: «Non può continuare a chiedere passi indietro agli altri e non prendere in considerazione l’ipotesi di rinunciare alla presidenza del Consiglio a sua volta», si sfoga un’eletta, convinta che il Movimento non stia facendo una bella figura a incaponirsi su un solo punto fermo: la poltrona di Palazzo Chigi da assegnare a Di Maio. «Bisogna sbloccare la situazione per consentire alle Camere di lavorare», è la recriminazione che arriva dalla base parlamentare, «non assecondare un capriccio». Ma l’unico grimaldello per forzare il fortino in cui si è imprigionato il Movimento è un passo indietro del leader. Qualcuno è convinto che anche Davide Casaleggio si sia reso conto della necessità di un cambio di passo e che l’abbia fatto presente al diretto interessato martedì mattina a pranzo. Chi ha visto Di Maio dopo l’incontro parla di un uomo «scuro in volto». La “lettera di licenziamento” potrebbe essere già stata scritta per essere consegnata dopo il probabile fallimento dell’ennesimo tentativo di mediazione affidato a Casellati.

E se la presidente del Senato tornasse a mani vuote da Mattarella, la speranza di tanti grillini è che il Quirinale si rivolga alla seconda carica dello Stato per uscire dallo stallo, prima di suggerire una soluzione terza. Mentre la popolarità di Di Maio tocca il minimo storico, infatti, nel gruppo parlamentare cresce a velocità costante il gradimento nei confronti del suo eterno antagonista: Roberto Fico. È lui il piano B su cui puntano gli eletti per scalzare il capo politico e condurre il Movimento verso un accordo col Partito democratico. Il presidente della Camera, del resto, da giorni tesse la sua tela in silenzio, dialogando coi dem su temi concreti, come la riforma penitenziaria, che Fico ha chiesto di inserire tra i provvedimenti da esaminare in Commissione speciale. Non un tema qualunque, ma una delle riforme del precedente governo - osteggiata dai cinquestelle - a cui il Pd tiene di più. I renziani se ne sono accorti e qualcuno comincia a farci un pensierino.

I colonnelli di Di Maio annusano l’aria, capiscono che la situazione rischia di sfuggire di mano e provano ad arginare la rivolta silenziosa come possono. «Il mandato esplorativo dato ai presidenti delle Camere è un incarico di natura istituzionale», dice il capo dei senatori Danilo Toninelli. «Roberto Fico oggi è una figura istituzionale e se dovesse ricevere il mandato esplorativo lo farà con la funzione istituzionale, e non di partito, che quell’incarico necessita». Difficile essere più espliciti di così, ma se non bastasse, ci pensa Vito Crimi a ribadire il concetto: «Quelli a Fico o Casellati sono incarichi di tipo istituzionale, certamente non di tipo politico», dice il presidente della Commissione speciale a Palazzo Madama. «Secondo me la scelta di Mattarella ricadrà su chi ritiene più idoneo a portare avanti il dialogo». Il capo degli ortodossi è avvisato: inutile fare fughe in avanti, «lo scenario è Di Maio premier». Almeno per qualche giorno ancora.