Potente, coinvolgente, dirompente. “Svanga”, svuota e riempie contemporaneamente di materia, di simboli: c’è questo ed altro nel nuovo spettacolo di Mimmo Borrelli “La Cupa. Fabbula di un omo che divinne un albero”. Un capolavoro di drammaturgia contemporanea. In scena in prima nazionale assoluta al Teatro San Ferdinando, fino al 6 maggio, è prodotto dal Teatro Stabile di Napoli -Teatro Nazionale. Si tratta di un’opera in versi, canti e drammaturgia, presentato in due blocchi autonomi e connessi, per una durata complessiva di circa tre ore. Un lavoro imperdibile per una serie di ragioni a partire dalla coraggiosa e innovativa drammaturgia, dalla bellezza e dalla sonorità dei versi: inizialmente 15 mila e poi ridotti a 2500 per essere messi in scena, composti in tanti anni da questo bravissimo e giovane regista, autore, attore che vive a Torregaveta nei Campi Flegrei e da cui trae energia e ispirazione. Senza contare l’arcaicità della lingua napoletana, la coralità e la bella interpretazione di tutti gli attori. Infatti in scena accanto a Borrelli recitano Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri. La Cupa, una cava profonda, buia, dove non trapela il sole, che discende nell’abisso del sottosuolo, continuamente erosa dall’azione dell’uomo che la svuota, la inquina, nasconde gli orrori di devastazione del territorio. Metafora dell’esistenza umana, deriva di una condizione storica che sta perdendo i suoi riferimenti culturali e non sviluppa creatività, senza di essa “una civiltà è destinata ad estinguersi”. «La Cupa è il testo che determina lo “svango”, - scrive Mimmo Borrelli - lo svuotamento, il passaggio dalla Trinità dell’Acqua (composta dai precedenti testi ’Nzularchia; ’A SciavecaLa Madre, ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma) alla Trinità della Terra. Mentre nella precedente trilogia il flusso dell’elemento materico ruotava attorno al cardine orizzontale della maternità: dall’umidità di un’infanzia violata, rinchiusa nell’utero materno di una pioggia incessante di memorie da raccogliere nella tinozza dei ricordi da ricostruire, di ’Nzularchia; per passare all’amore impossibile violentato, inzozzato, insufflato e travolto dai fiotti ondosi del mare de la ’A Sciaveca; fino ad arrivare ad un testo che affrontasse concretamente e non per richiami di allegoria la maternità stessa, ovvero La Madre, ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma”, in questa invece affonderò le mie peregrinanti autoanalisi – continua il regista - nei versi del mio inconscio e il suo affiorare in getto e spruzzo furibondo alla pagina prima, alla scena poi, senza intralcio di naturale consequenzialità e senza dunque poter prescindere dalla mia stessa carne e messa in compromissione, negli atti al presente della mia stessa vita, sulla paternità e le sue e le mie paure, non così tanto nascoste». Una rappresentazione così piena di contenuti, di simbologie, archetipi ancestrali, di sacro e profano, talvolta blasfema nel linguaggio e nella materialità dei riferimenti terreni, che di botta si eleva con le suggestive scene di Luigi Ferrigno: un mondo-pianeta sospeso che poi atterra, si muove, rotola lungo i binari di una cavità posta al centro del Teatro San Ferdinando che, per l’occasione, è stato smembrato e dove ai lati, a destra e sinistra, è sistemato il pubblico. Al centro si delinea dunque un cunicolo simile ad una cava, grotta, la profondità della Terra dove passa appunto questo pianeta affascinante che sembra risucchiato, intrappolato “nel vuoto delle coscienze e della memoria del nostro tempo”. Per cui si ha la sensazione ora di sprofondare ora di elevarsi, ora di attraversare senza pietà, con crudezza l’inconscio profondo dei personaggi che affrontano in modo forte l’ancestrale rapporto materno e paterno. In particolare c’è una riflessione sulla difficoltà della paternità. “Sono partito da me, dalle mie verità e oscurità – scrive Borrelli nelle note di regia – dalla mia condizione di essere e non potere essere padre in questo mondo. Padre che in un mondo che, qualche anno fa, definivo alla deriva ed ora in balia dell’arenile di una balia che non ha porto, non ha civiltà, versante, senso, rotta e non ha neanche un ponte al quale attraccare, né posto sicuro dove emigrare. Anche se fosse l’inutile pontile della mia Torregaveta”. E poi il regista si chiede: “Creare vita, essere pronti ad essere padri: divinità minori di una società migliore; è ancora auspicabile?”. Melodia, poesia, violenza fisica e verbale si intrecciano nell’opera in un corpo a corpo carnale, danze primordiali e orientali, tra allegorie familiari, lotte tra il bene e il male, in un scontro fisico inquietante ed esplosivo: “Ma ‘a terra primma o poi ‘nt ‘a na vota/ contr’a ll’ommo sempe s’arrevota”. Un universo dunque dannato e minacciato, personaggi di un incubo, di un sogno, di una illusione, danno vita ad una processione blasfema, ad un rito che rimanda a segni e simbologie di un tempo. La presenza scenica di Borrelli, nel ruolo di Giosafatte ‘Nzamamorte, è veramente notevole come quella di Maurizio Azzurro (Matteo Pagliuccone) e di tutti gli altri interpreti: Dario Barbato, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri che si muovono coralmente e con un ritmo impeccabile su un palcoscenico e scenografia molto originali. Tutto e tutti esaltati dalla grande geometria e dalle suggestive luci di Cesare Accetta che sembrano seguire il gioco, la virulenza e la melodia dei versi. Un grandissimo effetto perché i versi rimbalzano sullo spettatore che ne rimane coinvolto e partecipe. Anche i costumi sono molto belli e sono di Enzo Pirozzi; le musiche, le risonanze, gli echi e le ambientazioni sonore che rimandano ad un mondo primitivo sono composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione. Quello di Mimmo Borrelli è un teatro contemporaneo forte e viscerale che scuote, fa riflettere, che scava nel buio e nel profondo dell’anima, da amare e forse respingere, ma solo da parte di chi non ha voglia di affondare le mani nel coacervo di contraddizioni quotidiane, in quel sottile confine tra legalità e illegalità, tra giustizia e ingiustizia, tra incesti e contrasti inquieti, di madri assassinate, violenza sulle donne e sui minori, di gelosie e ricatti, di padri furenti che amano e odiano. La paternità viene deformata così come viene deformato e inquinato il territorio. Appunto come la definisce il suo autore, la Cupa è “una favola di anime, uomini e bestie”.