Oggi è attesa la sentenza sulla morte di Marco Vannini, avvenuta nel 2015 a Ladispoli: il ragazzo era stato raggiunto da un colpo d’arma da fuoco sparato da Antonio Ciontoli, padre della fidanzata. Il pm ha chiesto 21 anni di carcere per Ciontoli e 14 per la moglie Maria Pezzillo e per i due figli, Martina e Federico. I quattro sono accusati di omicidio volontario con dolo eventuale. Nel processo è imputata anche la fidanzata di Federico Ciontoli, Viola Giorgini, per la quale l’accusa ha chiesto 2 anni di carcere ( con sospensione della pena) per omissione di soccorso. «A fronte di uno sparo colposo, i quattro hanno scelto di ritardare i soccorsi e fornire ricostruzioni fuorvianti», aveva sostenuto il pm Alessandra D’Amore dinanzi la prima Corte d’assise di Roma. Il caso ha suscitato molto interesse ma soprattutto sdegno tra i concittadini: in tanti chiedono che l’intera famiglia Ciontoli trascorra il resto della vita in carcere. In questo clima, gli avvocati difensori dei Ciontoli, Andrea Miroli e Pietro Messina, hanno denunciato, in una lettera inviata alla giunta dell’Unione Camere penali, di aver ricevuto telefonate e «messaggi vari dal tono diffamatorio, quando non addirittura minaccioso», a causa soprattutto del peso di una forte pressione mediatica. La tensione è stata alimentata dall’immancabile scenografia giustizialista allestita per lo più in due note trasmissioni Rai e Mediaset. Ecco perché oggi molti penalisti, come reso noto dalla Camera penale di Roma, saranno presenti presso l’aula della Corte di assise: vogliono dimostrare ai colleghi Miroli e Messina «la nostra vicinanza e solidarietà, proprio nel momento in cui dimostreranno come l’esercizio del mandato difensivo non ammette alcun tipo di condizionamento». Ne parliamo col presidente dell’Unione Camere penali italiane, Beniamino Migliucci.

Presidente, come giudica le minacce subite dai suoi colleghi impegnati in questo delicato processo?

Il processo mediatico, che è un processo virtuale, produce effetti distorsivi, aspettative di una giustizia sommaria, sentimenti di rabbia, di vendetta. Soprattutto, sta passando pericolosamente l’idea di sovrapporre l’avvocato al proprio assistito, oppure si immagina che l’avvocato non difenda una persona ma il reato. Il processo mediatico è un atto inquisitorio e perciò autoritario, si fonda solo sugli elementi raccolti dall’accusa nei confronti dell’indagato ed è esattamente il contrario del giusto processo. Purtroppo viene a mancare l’interesse per il dibattimento. Quando questo tipo di giustizia si sostituisce a quella del Tribunale, si assiste alla delegittimazione degli attori del processo, si crea astio nei confronti dei difensori. Si calpesta in un colpo solo tutto ciò che i nostri padri costituenti hanno voluto specificare nell’articolo 24 della Carta costituzionale.

Sotto attacco non sono solo gli avvocati, ma spesso anche i giudici, se non deliberano come vuole la massa. Paradossalmente questo acuirsi della situazione, non potrebbe vedere uniti avvocati e magistrati nel trovare una soluzione comune?

La magistratura più attenta è consapevole di ciò. Al nostro congresso di Roma il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini aveva messo in guardia, proprio dal nostro palco, dai danni della giustizia mediatica. Lo stesso presidente Mattarella proprio in quei giorni ha ribadito che l’esposizione mediatica non giova all’autorevolezza dell’ordine giudiziario e delle decisioni. Il processo mediatico crea aspettative durante la messa in onda di certe trasmissioni secondo cui qualcuno sarebbe il colpevole di un atroce reato, e non interessa più il processo. Da ciò la delegittimazione anche dei giudici, quando assolvono o irrogano pene troppe basse.

Il processo mediatico condiziona inevitabilmente anche i giudici popolari.

Il problema è che ad essere influenzati sono anche i giudici togati, come abbiamo illustrato in un nostro convegno a Bologna, quando alcuni psicologi hanno ricordato come i magistrati obbediscano a meccanismi identici a quelli di tutti gli esseri umani. Un giudice togato sarà meno permeabile dai condizionamenti, ma una lunga campagna mediatica potrà avere effetti anche su di lui.

Questo non è certo l’unico caso in cui il diritto alla difesa è completamente disconosciuto. Come si può porre rimedio?

Tutti criticano il processo mediatico ma nessuno fa nulla per arrivare a una soluzione. Si ha purtroppo l’idea che l’avviso di garanzia equivalga già a una condanna di primo grado. Prende il via la gogna mediatica e poi si rimane sorpresi se l’imputato viene assolto. Quasi nessuno racconta che dal 1992 il nostro Paese ha pagato 650 milioni di euro in indennizzi per ingiusta detenzione: vuol dire che qualche volta si sbaglia. Quando abbiamo immaginato un Osservatorio sull’informazione giudiziaria non era per colpevolizzare i giornalisti: era una riflessione culturale per tutti gli operatori del diritto. Dobbiamo chiederci se vogliamo vivere in Paese dove ancora vige la presunzione di innocenza. E poi la segretezza delle indagini a cosa serve? Serve innanzitutto per non far andare in fumo le indagini stesse, ma anche per garantire la riservatezza degli indagati. E soprattutto per preservare la verginità cognitiva del giudice. Il controllo giudiziario dove si deve formare? E poi cerchiamo di immaginare se noi stessi o un nostro parente diventassimo i soggetti di una gogna mediatica: ci farebbe piacere essere oggetto di una giustizia sommaria?

Di chi sono le responsabilità?

Le prime sono a monte. Se il giornalista ha una notizia che non deve avere il problema è di chi gliel’ha data. La verità è che nella fase di indagine circa il 70% degli atti che non dovrebbero uscire proviene dal circuito inquirente. Nel nostro Paese abbiamo registrato violazioni gravi del segreto istruttorio. Qualcuno propone di dare tutti gli atti alla stampa, ma non condivido: non si deve fare un processo di piazza. Quello che deve essere seguito è il dibattimento. Siamo disposti tutti, avvocati, magistrati e giornalisti, a riconoscere che davvero esiste la presunzione di innocenza e che alcune informazioni debbano rimanere riservate? In primis la politica, il legislatore, deve avere consapevolezza di questo. Qualche norma c’era, ma quanti processi sono stati fatti per verificare chi aveva dato notizie che non sarebbero dovute trapelare? Nessuno trova il responsabile perché è difficile indagare su se stessi.

Alla luce della vostra annunciata mobilitazione per la riforma dell’ordinamento penitenziario, cosa della richiesta di riflessione sul tema avanzata dal presidente della Camera, Roberto Fico, ai capigruppo di Montecitorio?

A lui avevamo scritto per chiedergli di considerare la riforma. Per questo quanto da lui dichiarato rappresenta una apertura significativa nei confronti di una riforma che dà maggiore sicurezza e non mette fuori terroristi e mafiosi.