Una nemesi? Diciamo una severa lezione. Di diritto però. Berlusconi potrebbe essere riabilitato. Potrebbe: nel suo caso, quando si tratta di procedimenti giudiziari, il condizionale è di default. Però le probabilità ci sono. Lo ha spiegato con assoluta completezza il Corriere della Sera di ieri: il 12 marzo scorso l’ex presidente del Consiglio ha presentato istanza di riabilitazione al Tribunale di sorveglianza di Milano, così come consente l’articolo 683 del Codice di procedura penale. E, come prevede la stessa famigerata legge Severino, qualora siano trascorsi almeno tre anni dalla fine dell’esecuzione della pena e il condannato abbia anche adempiuto a tutti gli obblighi civili che ne derivavano, se insomma ha i requisiti per essere riabilitato e la decisione dei giudici glielo riconosce, si estingue qualunque altro effetto penale della condanna, compresa l’incandidabilità. Ecco perché Berlusconi, di qui a tre mesi al massimo, potrebbe tornare pienamente in gioco, anche in vista di un eventuale ritorno alle urne. Sarebbe candidabile al Parlamento e potrebbe partecipare alla pur virtuale contesa tra aspiranti premier.

Tutto bene? Sì, per lui. Ma forse non solo per lui. Si pensi a Matteo Salvini e, soprattutto, Luigi Di Maio. Bloccati nel loro progetto di governare insieme perché il primo non può fare a meno di Berlusconi ( per motivi politici) e il secondo non può fare a meno del capo leghista ( per un fatto di numeri) ma nemmeno può stare in maggioranza col Cavaliere ( se no i militanti lo linciano). Se Berlu- sconi non è più un pregiudicato ma un riabilitato, se torna lindo dal punto di vista del casellario, si apre un’autrostrada, davanti al capo politico dei cinquestelle. Ci sarebbe un pretesto, un valido appiglio per convincere i militanti che governare con il Cavaliere non è poi uno scandalo. Sarà pure roba da formalisti del diritto, però dalle parti di Grillo la pensano così. Almeno quando si tratta degli altri. È vero, prima ci si doveva dimettere a prescindere, se indagati. Poi la vicenda Raggi ha introdotto un principio sostanzialista, nel massimario della Cassazione grillina: si decide caso per caso. Ma è una roba a uso interno. Se si tratta di estranei al Movimento non si fanno sconti. Come con Romani. È bastato un peculato relativo a un bene che, detto chiaramente, un parlamentare si compra con un centesimo del proprio stipendio, cioè un telefonino, per giunta scivolato distrattamente nelle mani di un familiare. È bastato quello, perché sull’ex capogruppo forzista piombasse la croce nera. Figurarsi con una condanna definitiva per frode fiscale, come nel caso di Berlusconi. Ma proprio in considerazione del formalismo parossista che orienta le pregiudiziali pentastellate, una formale riabilitazione potrebbe fungere da sblocco. Come per le serrature arrugginite, che si aprono magicamente dopo ore di sbattimenti inutili.

E così potrebbe nascere il governo cinquestelle- centrodestra. Potrebbe. Sempre che il Tribunale di Sorveglianza milanese, riunito in Camera di Consiglio, in composizione collegiale ( due giudici e due onorari), accolga l’istanza presentata venti giorni fa dai difensori di Silvio Berlusconi, il professor Franco Coppi e il senatore Niccolò Ghedini. Non è detto, nulla è scontato. Pesa la pur minima incognita delle condotte contestate nell’ambito del Ruby ter e successive all’ 8 marzo 2015, giorno in cui l’ex premier ha finito di scontare la sua pena. Secondo la legge il condannato deve aver dato «prove effettive e costanti di buona condotta», perché il Tribunale possa concendergli la riabilitazione. Ma le pronunce della Cassazione tendono a escludere che procedimenti penali non ancora definiti possano incidere sulla decisione. E quindi, pur con tutti i condizionali di cui sopra, qualche speranza di non dover neppure aspettare la sentenza di Strasburgo, attesa per ottobre, Berlusconi ce l’ha.

Non solo. Perché, come si vede, in gioco ci sono due principi costituzionali negletti, al tempo del giustizialismo. Il primo è il fine rieducativo della pena: l’istituto della riabilitazione obbedisce anche a quella norma. Se il condannato dimostra di essersi lasciato alle spalle gli errori, se cioè la “rieducazione” c’è stata, deve essere pienamente reinserito nel contesto sociale. È questo anche il senso della legge Severino nella parte in cui prevede la revoca dell’incandidabilità in seguito a riabilitazione. L’altro principio riguarda la questione poc’anzi richiamata, ovvero l’irrilevanza di accuse contestate in procedimenti non conclusi: si tratta della presunzione di innocenza, che vale per quasiasi indagato o imputato. E insomma, se potranno unirsi in maggioranza, Salvini e Di Maio dovranno ringraziare i princìpi garantisti contenuti nella Carta. Quelli che soprattutto il leader cinquestelle tende a ignorare e forse pensa di abolire. Una nemesi, sì. O forse una provvidenziale lezione, di cui magari l’eventuale futura maggioranza potrebbe persino fare tesoro.