Che Lega e M5S stentino a trovare un accordo di governo è tutt’altro che stupefacente: i due partiti hanno numerosi elementi in comune ma su almeno altrettanti fronti sono invece diversi e distanti. Il tratto anomalo, pur se prevedibilissimo, è che a fare ostacolo non sono per ora conflitti sul cosa fare ma, tanto per cambiare, su nomi, facce alleanze. La Lega, da questo punto di vista, appare infinitamente più flessibile: da questo come da molti altri punti di vista Salvini è davvero erede di Bossi, l’unico leader che nella seconda Repubblica era capace di sottrarsi ai diktat umorali della sua ba- se elettorale.

Per M5S le cose stanno diversamente. Il Movimento fondato da Grillo deve fare i conti con un elettorato che è stato abituato a considerare qualsiasi mediazione come ' inciucio' e che pertanto non accetterebbe facilmente intese se non per un governo guidato da Di Maio e che soprattutto in nessun caso sarebbe disposto a ingoiare alleanze con il nemico pubblico Silvio Berlusconi. Quegli umori della base sono enormemente amplificati dalla presenza di un quotidiano, Il Fatto, che se ne può fare e spesso se ne fa portavoce.

Se esiste da decenni un “fattore B. ” nella politica italiana, inteso come l’impossibilitò di dialogare con un leader, primo ma non unico Silvio Berlusconi, pena l’accusa di infame tradimento, si potrebbe dire che esiste anche un “fattore T. ”, a patto di considerare il direttore del Fatto, Marco Travaglio, come l’esempio più visibile e vistoso di un giornalismo che esercita una sorta di “potere di veto” sulle scelte delle forze politiche. E’ un’arte nella quale, oltre alla succitata testata, eccellono in molti e tra i primi Repubblica. E’ significativo che il potere dei media sia quasi assoluto sul piano ostativo e quasi inesistente su quello propositivo. Quando lo stesso Travaglio ha chiesto le dimissioni della sindaca di Roma Virginia Raggi, il Movimento lo ha tranquillamente ignorato: cosa ben più difficigombrante le e forse impossibile quando gli strali si appuntano contro il dialogo con un “intoccabile”.

La stessa legge elettorale che ha prodotto il caos attuale è frutto di quei condizionamenti e di quei veti. Va da sé che la legge proporzionale sulla quale era stato trovata un’intesa tra Pd, Fi, Lega e M5S. Quella legge avrebbe infatti evitato l’ambiguità tra liste e coalizioni che è all’origine dell’attuale stallo. Ci sarebbe stato un vincitore netto, M5S, con il quale una Lega uscita più che rafforzata avrebbe poi deciso se allearsi o meno, riconoscendone il primato e la premiership, sul merito e senza dover fare i conti con l’in- presenza del Cavaliere. Quella legge fu affossata proprio dal fuoco incrociato delle testate che schierarono plotoni di opinionisti e di padri nobili accusando la legge di “inciucismo”. M5S non resse alla pressione del Fatto. Il Pd cedette all’offensiva di Repubblica.

Una dinamica simile è in realtà almeno parzialmente alle origini della rovina di Renzi. E’ infatti pacifico che, senza la rottura con Berlusconi sull’elezione del capo dello Stato, l’allora premier avrebbe vinto il referendum e tutto sarebbe andato molto diversamente. Renzi preferì rompere piuttosto che non eleggere Giuliano Amato come chiedeva Berlusconi e come sarebbe convenuto allo stesso Renzi, in parte per insofferenza nei confronti di D’Alema, che era stato regista dell’operazione, ma in parte per sottrarsi all’accusa della sua opposizione interna di preferire accordi con l’Innominabile Silvio a una conver- genza con la sinistra interna ed esterna al Pd.

Gli esempi recenti non devono però far credere che lo sia anche il problema. Al contrario ha accompagnato e funestato l’intera parabola della seconda Repubblica. L’effetto più disastroso è stato probabilmente il fallimento della bicamerale presieduta da D’Alema tra i 1996 e il 1998. Quella commissione resta a tutt’oggi il solo tentativo serio di modificare la Carta senza imposizioni, concordando le modifiche, e senza superficialità. Crollò sulla riforma della giustizia, non perché qualcuno ritenesse davvero che dell’intera Carta solo la parte che riguardava la giustizia fosse perfetta ma perché intervenire su quel punto con Berlusconi e contro il potere togato sarebbe stato considerato indigeribile da un elettorato che già allora, molto prima di Grillo e Travaglio era stato convinto che dialogare con il nemico giurato equivalga a tradire.

All’origine del guaio c’è una concezione un po’ farneticante e tuttavia accreditata ovunque: quella riassunta nel termine ' sdoganamento'. E’ l’idea balzana secondo cui a garantire la legittimità democratica di un interlocutore non sono i voti che incassa ma il ' riconoscimento' da parte dei rivali e della controparte. Senza dubbio “l’anomalia” Berlusconi, dato e non concesso che si tratti di un’anomalia e non di un esperimento pilota come capita spesso in quel laboratorio della politica che è l’Italia, ha contribuito a rendere pratica comune l’idea che si debba “sdoganare” chi è votato da milioni di persone e che non riconoscerne la legittimità sia dirimente per conquistare i voti del proprio elettorato potenziale. Ma la zavorra che continua a portare la politica italiana a fondo andrebbe rintracciata in quelle pratiche di “riconoscimento politico negato” che non in qualsiasi altro elemento.

ALL’ORIGINE DEL GUAIO C’È UNA CONCEZIONE UN PO’ FARNETICANTE E TUTTAVIA ACCREDITATA OVUNQUE: QUELLA RIASSUNTA NEL TERMINE ' SDOGANAMENTO'.