In un certo senso quello che comunemente definiamo il caso Moro cominciò davvero il 29 marzo 1978, 13 giorni dopo la strage di via Fani e il sequestro della scorta. Erano state due settimane quasi silenziose, scandite solo dal primo comunicato delle Brigate rosse, con la rivendicazione dell’attacco e da un secondo comunicato, diffuso il 25 marzo, nel quale l’organizzazione armata spiegava perché avesse scelto proprio quell’obiettivo, ricapitolando la carriera del leader democristiano, sottolineando la sua probabile imminente elezione a presidente della Repubblica e insistendo sul ruolo strategico di quella carica istituzionale nella costruzione dello Stato Imperialista.

In qui 13 giorni veniva dato per certo, anzi per scontato che nella sanguinosa partita che si stava giocando sarebbero stati in campo solo due protagonisti: le Brigate Rosse, dalle quali ci si aspettava sin dal primo momento la richiesta di uno scambio di prigionieri e lo Stato, blindatosi dietro la linea detta ' della fermezza' ancor prima che venissero avanzate richieste o ipotizzate trattative.

Al sequestrato spettava il ruolo muto della vittima, l’oggetto inanimato per il quale si sarebbe certo chiesto un riscatto. I giornali lo dipingevano a priori come eroe e come martire.

Quel 29 marzo cambiò tutto. Il prigioniero entrò in campo direttamente. Prese la parola. Provò a tessere la trama che avrebbe potuto salvargli la vita facendo ciò che sapeva fare meglio e che faceva da sempre: facendo politica. Scrisse una lettera meditata e calibrata in ogni singola parola e in ogni segno di punteggiatura.

La fece recapitare al suo segretario particolare, Nicola Rana, perché la consegnasse al ministro degli Interni Cossiga raccomandando la massima discrezione: «La mia idea e speranza è che questo filo, che cerco di allacciare, resti segreto il più a lungo possibile, fuori da pericolose polemiche». Nella lettera a Cossiga il prigioniero di via Montalcini chiariva di essere «sotto un dominio pieno e incontrollato», escludendo così la possibilità di attivare rapporti con potenze straniere per risolvere la situazione. Specificava di essere ' processato' per accuse che in realtà riguardavano l’intero gruppo dirigente della Dc. Ma soprattutto metteva sul piatto della bilancia la minaccia di rivelare segreti tali da mettere in pericolo la sicurezza dello Stato. Moro non adoperò in quell’occasione giri di parole: «Entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria, che pure non si può ignorare, la ragione di Stato... Sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni».

Moro aveva probabilmente scelto di rivolgersi al ministro Cossiga, invece che al premier Andreotti o al segretario della Dc Zaccagnini, perché del primo non si fidava e del secondo conosceva la debolezza e perché sapeva che Cossiga era in quel momento la figura chiave anche nei rapporti con il Pci.

Forse sperava anche nei rapporti personali tra l’inquilino del Viminale e il cugino segretario del Pci. In ogni caso Cossiga, slegato dai tipici giochi di corrente democristiani e con un ben noto senso dello Stato, era la figura che più di ogni altra avrebbe potuto in quel momento alterare gli equilibri a sfavore della ' fermezza'. Data la personalità di Cossiga, la leva utile poteva essere solo l’interesse superiore dello Stato. Si trattava di rovesciare la logica alla base della fermezza dimostrando che il senso dello Stato consigliava di salvare l’ostaggio a tutti i costi e non di sacrificarlo.

Perché la strategia messa a punto da Moro avesse successo, pegestita rò, era necessaria la segretezza. In caso contrario le «pericolose polemiche», in concreto il fuoco incrociato dei media e dei partiti più ostili a ogni ipotesi di trattativa, avrebbe avrebbe gelato il germoglio prima che avesse il tempo, necessariamente lungo, di sbocciare. L’argomentazione scelta per spostare Cossiga, una volta resa pubblica, sarebbe suonata come minaccia ricattatoria e avrebbe reso ancora più difficile sgretolare il muro della fermezza.

Senza avvertire il prigioniero, le Br decisero invece di rendere nota la lettera. «Ha chiesto di scrivere una lettera segreta ( le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana)... Gli è stato concesso ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume la rendiamo pubblica», spiegarono i brigatisti nel comunicato n. 3. Fu un errore clamoroso. E’ noto che Moro reagì con disappunto e delusione, probabilmente con disperazione, certo sentendosi tradito. Da parte delle Br fu uno sbaglio tremendo, dettato probabilmente dallo stesso errore di valutazione che le aveva spinte a sequestrare Moro senza neppure chiedersi come sarebbe stato poi politicamente un’operazione così deflagrante: la convinzione che, avendo in mano ' il capo' del fronte nemico, lo Stato non avrebbe potuto in nessun caso fare a meno di trattare. Le conseguenze di quello sbaglio condizionarono da quel momento in poi tutto, e forse determinarono l’esito della vicenda.

I giornali e la politica reagirono esattamente come aveva previsto Moro. Una raffica di titoli e dichiarazioni che ripetevano tutti la stessa affermazione: quello non è il vero Aldo Moro. Un coro unanime: «Messaggio chiaramente estorto», «Testo autografo ma stile diverso da quello dello statista». «Una lettera estorta a Moro», «Moro dice di scrivere costretto dalle Br». Moro non aveva e non doveva avere diritto di parola e di intervento nella partita che aveva per posta in gioco la sua pelle. Non lo si poteva prendere in considerazione perché le sue parole erano ' estorte' e quando non fu più possibile attaccarsi a questo appiglio si passò a proclamarlo matto. Per lo Stato moro era morto il 16 marzo e le cose non sono cambiate. Dopo quarant’anni sull’Aldo Moro dei 55 giorni resta calata una cappa di piombo.