«Sono assolutamente d’accordo. Però vorrei dire una cosa, ai miei amici avvocati: non illudetevi. Soprattutto non sottovalutate la parola ‘ indipendenza’. Noi magistrati ne sappiamo qualcosa: comporta onori e oneri, e questi ultimi riguardano anche la sfera delle attività private o comunque esterne alla giurisdizione, nelle quali si pretenderà che vi mostriate altrettanto indipendenti». Giacomo Ebner, magistrato attualmente in servizio presso il dipartimento Giustizia minorile di via Arenula, condivide la proposta, avanzata dal Cnf, di inserire in Costituzione il riconoscimento della libertà e dell’indipendenza dell’avvocato. Raccomanda di «tenere conto delle conseguenze che dalle parole derivano». Senza però mettere in discussione un principio: «Magistrati e avvocati devono essere in una condizione di pari dignità. Ed è per questo che trovo la proposta costituzionale condivisibile». Si tratta d’altronde di una toga nota per l’approccio di sincera condivisione con gli operatori del diritto che si trovano “dall’altra parte”. Propensione che Ebner dà idea di aver maturato non tanto per aver esercitato la professione forense prima di assumere la funzione di giudice, quanto per un naturale, e salutare, senso dell’ironia che lo tiene al riparo da ogni vertigine da onnipotenza. Basta leggere il suo gustosissimo pamhplet su Dodici qualità per sopravvivere in tribunale ( e non è nemmeno certo), e lo si capisce subito.

Dottor Ebner, c’è un nesso tra il giustizialismo di una parte dell’opinione pubblica e l’insofferenza che quegli stessi settori della società nutrono verso la funzione dell’Avvocato?

Può esserci, ma è un aspetto che non drammatizzerei. Credo che per decifrare l’atteggiamento che si può avere rispetto ai delitti, si debbano distinguere innanzitutto tre categorie: da una parte i familiari delle vittime, la cui reazione va sempre compresa e ac- colta; quelli che hanno una reazione, appunto, sbrigativa, e sono per ‘ buttare la chiave’; ma ci sono anche gli operatori del diritto, a cui tocca contemperare le diverse attese di giustizia, comprese le garanzie di chi è accusato. Ebbene, questi ultimi, cioè avvocati e magistrati, non devo aspettarsi di piacere a tutti. Se noi magistrati suscitiamo consenso nel 50 per cento dell’opinione pubblica vuol dire che abbiamo fatto bene il nostro lavoro, perché distribuiamo ragioni e torti che inevitabilmente fanno conto pari. Vale lo stesso per gli avvocati: non è necessario che siano capiti da tutti. L’importante è che svolgano la loro funzione con dignità e professionalità. Gli operatori del diritto non devono essere attenti ai sondaggi.

Ma riconoscere in Costituzione la libertà e l’indipendenza dell’avvocato, come propone il Cnf, sarebbe utile a tenere la giurisdizione al riparo da pressioni che sembrano insidiarne l’autonomia?

Sì. Sono d’accordo con un’ipotesi del genere, sarebbe utile. Condivido soprattutto per una ragione: sono convinto che avvocatura e magistratura debbano avere pari dignità, e quindi sarebbe giusto coglierne un riflesso anche nel riconoscimento costituzionale. Ho solo una affettuosa preoccupazione per i miei amici avvocati.

Preoccupazione?

La parola ‘ indipendenza’ non amplia la parola ‘ libertà’. Anzi, la limita. L’indipendenza può comportare una limitazione di quella che consideriamo sfera privata. Un avvocato che vorrà essere indipendente dovrà tener conto che tale qualità sarà valutata, all’esterno, anche quando non esercita la professione, anche in attività del tutto estranee a questa. A noi magistrati si ricorda, giustamente, di dover non solo essere ma anche apparire indipendenti. È una conseguenza di cui siamo abituati a farci carico. Sono per l’equiparazione totale nel rispetto della diversità dei ruoli: a partire da questo posso dire che le parole hanno un prezzo.

In percentuale quanti sono i magistrati favorevoli a una sinergia con l’avvocatura?

Non è possibile fare stime. Si tratta di valutazioni legate alla personalità di ognuno. È certo però che a noi magistrati e agli avvocati manca a volte una visione strategica sufficiente a farci comprendere l’importanza di quella sintonia.

A cosa si riferisce?

La consapevolezza di dover camminare uniti dovrebbe essere più diffusa.

Al Dubbio, l’ormai ex giudice Nicola Quatrano ha detto che tra le disfunzioni più gravi per le quali sarebbe preziosa un’alleanza ci sono i maxiprocessi.

Si tratta di una questione aperta, e non solo per la difficoltà di accedere all’effettiva conoscenza di atti composti da migliaia di pagine. Si pensi a cosa voglia dire, nel caso di noi magistrati, scrivere una sentenza in un giudizio con tanti imputati. È un po’ come sparecchiare: è già complicato farlo dopo che ha cenato la tua fidanzata, figurarsi se a cena c’erano tantissime persone. Ecco, il peso che ricade su chi deve trarre le conclusioni di un maxiprocesso è allo stesso modo esponenziale.

Lei dichiara pubblicamente la sua vicinanza alla classe forense: qualche collega magistrato le ha mosso obiezioni in proposito?

Capita che qualcuno mi segnali comportamenti non consoni di qualche avvocato come se mi toccasse risponderne. Ma io mi sento semplicemente dalla parte di coloro che operano nella giurisdizione: credo che siamo gli uni per gli altri. E credo anche che la maggior parte dei miei colleghi abbia grande stima per gli avvocati anche se non lo dà a vedere.

Lei ha esercitato la professione forense prima di diventare magistrato: non tutti quelli che hanno un percorso simile svelano la stessa empatia.

Gliel’ho detto: è una questione di carattere. E il potere amplifica i tratti della personalità. Un magistrato ha un indubbio, notevole potere, che appunto funziona come una lente d’ingrandimento. Se sei refrattario alla condivisione, da magistrato lo sarai ancora di più. Se sei buono, per così dire, avere la toga addosso finisce per scoprirti del tutto.