È fatta. Non ci sono dubbi. Lo certifica una dichiarazione, un po’ sibillina, di Andrea Orlando: «Il decreto sul carcere passerà un’ultima volta per le Camere, sarà esaminato dalle commissioni speciali». Il ministro si riferisce alle commissioni che vengono formate un attimo dopo la proclamazione degli eletti al nuovo Parlamento. Ma la maggioranza grillin- leghista che vi si insedierà non potrà più bloccare la riforma: trascorsi dieci giorni, con o senza il prevedibile parere- anatema, il governo Gentiloni potrà approvarla in via definitiva. È dunque il momento dell’esultanza per chi ha voluto la svolta con tutte le forze possibili. Il Partito radicale, innanzitutto, a cominciare da Rita Bernardini ( intervistata in altra parte del giornale, ndr) che ha condotto lo sciopero della fame anche a nome del padre morale di questo pur parziale ritorno alla legalità, il grande Marco Pannella. Gli intellettuali e i giuristi che hanno promosso appelli all’esecutivo, su iniziativa di Aldo Masullo e Luigi Ferrajoli: con il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il vertice dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci tra i primi firmatari; con il sostegno di due magistrati del calibro di Armando Spataro e Edmondo Bruti Liberati, che hanno avuto il coraggio di sposare una causa vissuta tiepidamente dalla maggioranza delle toghe. «L’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario è una bella notizia anche per la buona politica, che non deve mai temere di attuare i principi inviolabili della Costituzione», scrive su twitter Mascherin, che coglie il nodo cruciale: l’esitazione della politica nell’attuare il dettato della Carta, vinta a fatica. Le resistenze ci saranno, non sono finite qui. Lo sa bene il ministro della Giustizia, che della riforma è stato il motore, e che poco dopo la fine del Consiglio dei ministri quasi sfida i taccuini: «No, guardate, non c’è nessun salvaladri, da domani non esce nessuno». Iperbole che poi il guardasigilli precisa: «Da domani il giudice potrà valutare caso per caso il comportamento dei singoli ed evitare quello che oggi avviene», ovvero gli attuali automatismi che premiano con cecità burocratica anche i detenuti refrattari ai percorsi trattamentali. «È un intervento che serve ad abbattere la recidiva», aggiunge Orlando, «ora si spendono ogni anno quasi 3 miliardi di euro per l’esecuzione penale, eppure abbiamo il tasso di recidiva più alto d’Europa». E le statistiche lo dimostrano.

Ma i dati non bastano a chi è contro: per Giorgia Meloni si tratta della «follia di un governo scaduto». Alfonso Bonafede ( M5s) parla di «decreto pericoloso». Matteo Salvini promette: «Cancelleremo tutto appena al governo». Lo segue il forzista Maurizio Gasparri. Sottovalutano che una “legge abrogativa” di norme con cui si dà finalmente attuazione all’articolo 27 della Carta sarebbe giudicata incostituzionale: basterà rimetterla alla Consulta. Ecco perché è fatta davvero. Nonostante il cattivo gusto del sindacato Sappe, che «trova sconcertante il via libera nel quarantennale di via Fani». Resta il compiacimento dell’Autorità garante dei detenuti, il cui presidente Mauro Palma esprime «soddisfazione» per l’atto con cui il governo porta a compimento l’approvazione del nucleo più atteso della riforma». «Consenso pieno» anche dal coordinamento dei Garanti territoriali. L’Unione Camere penali, protagonista di una mobilitazione forse decisiva, fa notare come il via libera di Palazzo Chigi sia arrivato senza che fossero recepite «le modifiche indicate dalle commissioni Giustizia, che avrebbero svuotato di significato la riforma». Si associano anche Ilaria Cucchi e Irene Testa, come diversi parlamentari del Pd, da Anna Rossomando a Walter Verini. È sua la migliore risposta agli oppositori: «Solo chi non ha cuore la sicurezza dei cittadini, ma vuole strumentalizzare questo tema, può sparare cinicamente contro la riforma».