Mattarella esorta tutti i partiti a mostrare «senso di responsabilità». Chiede di «saper collocare al centro l’interesse generale del paese e dei suoi cittadini». E’ solo un passaggio del discorso del capo dello Stato in occasione dell’ 8 marzo, ma è quello a cui guardano tutti. Perché il nodo forse indistricabile che il presidente proverà a sciogliere nelle prossime settimane è tale da non poter essere sciolto senza che qualcuno accetti di sacrificare i propri peraltro legittimi interessi di partito. Ma è una richiesta troppo forte per essere accolta solo da qualcuno. Il sacrificio dovrebbe accomunare tutte le forze in campo, le due che hanno vinto e quelle che hanno perso, il Pd e Fi.

Però anche solo immaginare una soluzione che almeno penalizzi tutti in egual misura è quasi impossibile, così la crisi rischia di avvitarsi ancor prima di essere affrontata. Giorgio Napolitano, che resta per molti versi un diarca alla guida della Repubblica, ripete le parole di Mattarella, esalta a sua volta «senso di responsabilità» e «interesse generale». Ma ammette, cosa che il suo successore non può fare, che «la crisi è difficilissima».

Hanno vinto in due, ed è questo che trasforma una situazione già di difficilissima risoluzione in un vicolo cieco. La vittoria di M5S era prevista. Quella della Lega no. Se le cose fossero andate come ci si attendeva sino a un paio di settimane prima del voto il governo Di Maio- Salvini sarebbe stato nell’ordine delle cose, più o meno inevitabile. Ma un Salvini fresco dall’aver rovesciato i rapporti di forza nella destra non può ora il alcun modo aggiogarsi al carro pentastellato, e M5S, da parte sua, non potrebbe concepire nemmeno come barzelletta l’eventualità di sostenete un governo del centrodestra in nessunissima formula. Dunque la sola formula di governo che possa prescindere dal sostegno del Pd è anche l’unica del tutto fuori discussione. Sul Colle lo sanno perfettamente e probabilmente è il solo elemento partorito dagli elettori che da quelle parti abbia fatto tirare un sospiro di sollievo. Ora il presidente aspetta che, nelle consultazioni, i due vincitori scoprano le loro carte.

Per un po’ saranno costretti a procedere appaiati su binari paralleli. Si presenteranno di fronte a Mattarella facendo il medesimo discorso e chiedendo la stessa cosa quasi con le medesime parole: l’incarico per provare a formare un governo, Salvini in nome della prevalenza del voto di coalizione, Di Maio impugnando il primato in quello di lista. La sola decisione che l’inquilino del Quirinale ha già preso riguarda proprio la risposta a quella richiesta: si informerà sui numeri che entrambi possono schierare a supporto del loro eventuale governo, e se i numeri non ci sono che ne parliamo a fare?

Perché quei numeri ci siano è necessario che il Pd decida di appoggiare gli uni o gli altri. Al momento, anche se nessuno lo ammette apertamente, l’ex partitone è spaccato come una mela: metà vorrebbe sostenere Di Maio, anche per evitare un ritorno alle urne che per i Democratici sarebbe esiziale, ma l’altra metà, quella più vicina al segretario uscente, pensa invece che quell’appoggio, magari solo per una fase non lunghissima, debba invece andare al centrodestra. Il ragionamento in realtà non fa una piega: appoggiare un partito che compete per la conquista dello stesso bacino elettorale come quello con le cinque stelle sarebbe fatale.

Per conquistare i voti del Pd però c’è un passo necessario: il passo indietro di Matteo Salvini. In caso contrario nessuna calcolo, nessuna logica riuscirebbe a giustificare una qualsiasi forma di appoggio del Pd a un governo guidato dal ' razzista'. La punizione dell’elettorato sarebbe esemplare. E’ quello il momento che aspettano sia Berlusconi che Mattarella. Il primo per entrare in campo, dopo aver lasciato che il competitor si bruciasse, e dimostrare nei fatti che il solo regista della coalizione rimane lui. Il secondo, sempre che nel Pd non abbia trionfato prima il partito favorevole a Di Maio, per giocare le carte reali e tentare di uscire dalla crisi.

Ma le variabili sono troppe, tra lacerazioni del Pd, scontro sotto traccia nella destra, disponibilità di Salvini a fare un passo indietro e di Di Maio a sacrificare la ' purezza' del suo Movimento. Alla fine il senso di responsabilità invocato da Mattarella rischia di tradursi, nella migliore delle ipotesi, a un governicchio fatto per cambiare, forse, la legge elettorale.