Tra i tanti paradossi che alimentano il dopo voto, quello forse più sconcertante riguarda la fretta. Fretta di sapere come va a finire, fretta di conoscere a chi Sergio Mattarella affiderà l’incarico di formare il governo, fretta di individuare la maggioranza che sosterrà l’esecutivo, fretta di capire se Matteo Renzi resta o no, fretta che il Pd risponda alle avances di Lega o Cinquestelle. Insomma fretta al quadrato, al cubo, all’ennesima potenza. Un atteggiamento, peraltro, che i media fanno a gara a rilanciare ed esaperare con interviste a raffica a personaggi che per forza di cose non hanno risposte da dare ma vengono lo stesso ininterrottamente sollecitati a fornirle, in un girotondo comunicativo che confonde invece di chiarire. La situazione è resa ancor più contraddittoria dal fatto che un tale soprassalto di concitazione non si giustifica con i risultati elettorali. Certo, il tonfo del Pd è stato particolarmente clamoroso, come pure la valanga grillina ha assunto dimensioni inimmaginate e anche il sorpasso di Salvini su Berlusconi ha cambiato i connotati del centrodestra. Tuttavia, al di là delle dimensioni, si tratta di evenienze che in parecchi avevano messo in conto: tanta sorpresa, a ben vedere, non c’è. Soprattutto non solo tanti bensì proprio tutti pontificavano ( compreso chi scrive, of course) che una volta chiuse le urne sarebbe stato complicatissimo definire una maggioranza, che il capo dello Stato si sarebbe trovato di fronte ad un panorama astruso e incoerente, che uno o più leader sarebbe saltato e così via. Insomma era tutto prevedibile e previsto. E di conseguenza ancor più nettamente si pone l’interrogativo: perchè tanta fretta? A quale titolo e da dove nasce?

Per scorrevolezza di ragionamento evitiamo possibili risposte di impianto psico- sociologico: l’accelerazione enorme delle comunicazioni; la compulsività di Internet e dei social; la fregola della connessione che stimola senza fine il circuito messaggio- risposta. Tutte cose vere. Che tuttavia rischiano di allontanare dal cuore del problema. Che è semplice: stabilire se tanta agitazione aiuta oppure no a trovare la via d’uscita sul fronte della possibile governabilità. A giudizio di chi scrive la risposta è semplice: no.

Anni e anni di slide, tweet, post, sms, what’s up e via discorrendo hanno prodotto un bisogno di smanioso e compulsivo affastellamento parolaio, rovescando secoli di saggezza popolare ( «Prima di parlare, respira» ) e sedimentando la convinzione che fare di corsa equivale a fare bene: altro non c’è. Peccato che non sia così. Non tanto, solo per fare un esempio, perché il corpo come raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha bisogno di almeno cinquemila passi lenti al giorno. E che la mente umana, se sovreccitata da stimoli e domande, lavora peggio o addirittura smette di lavorare: va in tilt. I Romani predilegevano Festina lente, ossimoro per raccomandare di sbrigarsi ma senza esagerare secondo quanto racconta Svetonio in riferimento ad Augusto imperatore. Saltellando di secoli, recentemente Luis Sepúlveda ha dato alle stampe un libriccino intitolato “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza”; e l’elogio della medesima l’ha fatto, sempre in volume, Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei ed ex direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Consiglio nazionale delle ricerche.

Basta divagare, torniamo al punto. Se la lentezza è una necessità nel comportamento umano, in politica diventa un obbligo. Consentire che maturino le condizioni migliori per smussare gli angoli; lasciar decantare toni e atteggiamenti, soprattutto quando assumono forme inutilmente gladiatorie e muscolari, spesso risulta la scelta migliore: la più lungimirante, la più saggia.

Mai come stavolta è così. Il quadro politico emerso dalle urne è aggrovigliato in modo impressionante e occorre prudenza e buonsenso per procedere. In caso contrario si rischiano testacoda che non servono a nessuno. Difficile immaginare che Mattarella si discosti da questo atteggiamento: per fortuna, viene da dire. Ma le forze politiche devono coadiuvarlo. «All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere, e sarà, imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza», raccomandò il capo dello Stato al momento del suo insediamento. E’ comprensibile che chi ha vinto le elezioni - o ritenga di averle vinte abbia fretta di mettere nel paniere i frutti del successo. Ma non sempre chi aumenta il ritmo della corsa poi arriva fino in fondo. Come diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein, spesso vince chi raggiunge il traguardo per ultimo. E’ una lezione che tanti leader potrebbero trovar conveniente ripassare.