«Il dato più drammatico di questo voto è la divisione del Paese in due italie, una coi populisti antieuropeisti e una coi populisti antisistema meridionale». Biagio de Giovanni, filosofo, eurodeputato e docente di Dottrine Politiche all’Orientale di Napoli, analizza il risultato elettorale e non ha dubbi: «Il Pd, per ricostruire una propria identità, deve stare all’opposizione, non ha bisogno di questo malinteso senso di responsabilità».

Quanto è cambiato il volto politico del Paese, dopo il 4 marzo?

Il panorama politico ne è uscito stravolto. È cambiato il rapporto del popolo con la propria nazione, un mutamento di sensibilità che ha travolto tutti i confini prevedibili. Questo è un voto che divide l’Italia in due in modo secco e senza precedenti.

Eppure per il voto al Movimento 5 Stelle e alla Lega si è ricorsi al comune termine di populismo.

Quello per il M5s e la Lega è un voto antielité e antisistema, però ha tratti molto diversi tra nord e sud. Il voto al nord per la Lega è stato dirompente: per passare dal 4% al 18%, significa che Salvini ha preso anche il 30% al nord. Alla base di questo voto c’è l’antieuropeismo, la sensazione che il sistema europeo sia un vincolo che va abbattuto. Al sud, invece, hanno dilagato in modo impressionante i 5 Stelle, con addirittura il 50% in Campania e Puglia. Questo, invece, è un voto anti élite meridionale, il voto di un Mezzogiorno abbandonato, che immagina che attraverso questo cambiamento ci possa essere un elemento di salvezza.

Due populismi diversi, quindi?

Più che altro due voti unificati dal carattere antisistema, ma diversi nella loro fisionomia. La parola populismo può essere utilizzata, ma sotto questa coperta ci sono cose molto diverse: da una parte il voto del nord antieuropeista, dall’altra il voto del sud anti elité. Si tratta di vie talmente divaricate che trovo molto difficile un loro punto di contatto in ottica di governo.

Quindi è impossibile un governo Lega- 5Stelle?

Se ne mormora, ma io non penso che la quadra di governo si trovi con l’accordo dei due populismi. Rappresentano due italie diverse e proprio la separazione tra nord e sud è il vero dato drammatico di queste elezioni. In passato i partiti tradizionali, pur con le loro egemonie regionali, riuscivano comunque a tenere insieme il Paese, oggi invece è caduto qualsiasi collante nazionale.

L’analisi dei flussi mostra che una significativa parte dell’elettorato del centrosinistra si è spostata verso i 5 Stelle. Come si spiega?

Questo è avvenuto soprattutto nel Mezzogiorno. Io credo che ciò si sia verificato perchè il Pd si è completamente separato dal sud, che è stato lasciato nelle mani di una classe dirigente non solo mediocre, ma acconciata dentro sistemi di potere familisti rispetto ai quali la gente prova grande estraneità. Il fenomeno meridionale ha questa caratteristica: la sensazione che non si sia mossa una foglia in questi anni di governo.

Un governo di centrosinistra che ha dimenticato il sud?

Il Pd è un partito che ha vissuto molto di centralismo e di comunicazione generale. Io non sono affatto critico nei confronti di questo governo, che poteva fare di più e meglio ma che comunque ha dato al Paese una stagione non negativa. Tuttavia non è riuscito a tradurre tutto questo in vicenda sociale e in coesione sociale e questo ha prodotto, soprattutto al sud, la sensazione di larghe zone di povertà e di drammatiche disuguaglianze. In questo panorama, una forza che si presenta come di rottura come hanno fatto i 5 Stelle ha catalizzato l’attenzione. La promessa del reddito di cittadinanza nel Mezzogiorno ha avuto un ruolo enorme, perchè ha mobilitato migliaia di giovani disoccupati, lasciandogli immaginare che c’è un partito che pensa a loro. Il Pd, invece, ha giocato una partita nazionale positiva ma ha dimenticato il rinnovamento delle classi dirigenti meridionali, statiche e addirittura in regressione.

Lei crede che sia possibile, invece, un accordo tra il Pd e i 5 Stelle?

Forse posso essere condizionato dai sentimenti in questa risposta, ma sono molto netto: un accordo di questo tipo sarebbe il modo per sotterrare definitivamente il Partito Democratico. Non è che per un malinteso senso di responsabilità il partito può rinunciare alla propria identità, alla propria storia e a tutto quanto ha detto in campagna elettorale. C’è stata una contrapposizione secca, che è anche trascesa nella grossolanità dell’insulto, tra due gruppi dirigenti: come si può pensare che ora improvvisamente uno sostenga l’altro? Il Pd deve prendere una posizione nettamente di opposizione, perchè responsabilità non significa cedere tutto. L’Italia ha votato così e ora il Movimento 5 Stelle deve provare a governare.

L’esempio tedesco della Grosse Koalition non è calzante, in questo caso?

Questa è una sciocchezza che sento dire molto. Che c’entra l’Spd con il Pd? L’Spd è un partito storico che per decenni ha avuto con la Cdu un rapporto di collaborazione o di opposizione. Ora hanno fatto una trattativa di 5 mesi per trovare un accordo dettagliatissimo, con i particolari dei singoli progetti di legge. Che cosa ha questo a che fare con un Pd che improvvisamente fa da tappetino del Movimento 5 Stelle? Come minimo bisogna pensare a lunghissime trattative, che entrino nel merito dei problemi di un programma con molte promesse impossibili. Altrimenti esiste sempre un ritorno alle urne.

E intanto il Pd che farà?

Anzitutto deve decidere che cosa è rimasto della sua identità. È un partito che sta riflettendo, a partire da ciò che accadrà lunedì in direzione. Prima di dire che il Pd è morto proviamo a ricollocarlo, dandogli un ruolo in questa nuova situazione politica. Certo, non può che essere un ruolo di lotta politica e di opposizione, ma da lì ricostruirà la propria identità.

Rimane solo in centrodestra dunque.

Anche qui il fronte è difficile. Se avesse vinto Forza Italia, il problema sarebbe in parte risolto perchè Silvio Berlusconi sarebbe tornato ad essere un punto di riferimento: con un centrodestra al 37% governato da Fi saremmo all’anticamera di un nuovo governo, mentre così non è perchè ha vinto la Lega. Salvini, infatti, a differenza di Berlusconi non è in grado di aggregare altre forze oltre a se stesso. Ecco, in questo scenario davvero non vorrei essere nei panni del Presidente della Repubblica.