Di certo c’è solo la direzione nazionale di lunedì prossimo. Nel mezzo, lunghi giorni di passione e - forse - qualche lungo coltello. Soffia vento di bufera al Nazareno, che le dimissioni “post- datate” del segretario Matteo Renzi non hanno fatto altro che alimentare: le sue prime parole dopo la debàcle elettorale non hanno avuto il tono che i big del partito si aspettavano ( una mesta dichiarazione di sconfitta con addio alle scene) e anzi, hanno fatto da collante per le nuove barricate. Renzi, trincerato nel suo ufficio, conta i nomi dei fedelissimi rimasti al suo fianco e sostenitori della linea ortodossa del mai coi 5 Stelle. «Chi vuole un governo coi grillini lo dica in direzione e nei gruppi parlamentari», è la sfida del segretario a scoprire le carte, dopo aver più volte apertamente attaccato i «caminetti» degli «amici dirigenti del Pd». La linea dei renziani Matteo Orfini, Luca Lotti e Maria Elena Boschi in testa - è chiara, esplicitata in un lungo post su Facebook: «Se un pezzo del nostro gruppo dirigente uscisse dalle sale dei convegni, dai ministeri e dai salotti bene e venisse a farsi una passeggiata nelle periferie, scoprirebbe che immaginare di sostenere chi in questi anni ha soffiato sul fuoco della rabbia sociale con parole di odio non ha nulla di “responsabile”. Significa solo rinunciare a combattere. E finire per legittimare il populismo più becero e violento». Il principale accusato sembrava essere l’ex ministro Dario Franceschini ( che alcuni retroscena davano come possibile presidente della Camera in caso di accordo), il quale però ha smentito seccamente: «Non ho mai pensato sia possibile fare un governo con 5 Stelle e tantomeno con la destra. Sufficientemente chiaro?». Unici a fare capolino, il ribelle Michele Emiliano che da tempo predica il dialogo coi grillini e la minoranza che a lui fa capo: Francesco Boccia lo ha detto in modo esplicito: «A Salvini mi pare naturale dire di no. Se arriva Di Maio mi sembra naturale valutare l’appoggio esterno».

Più che la scelta di stare all’opposizione, però, le polemiche riguardano le dimissioni a metà di Renzi. Tutti concordi che per recuperare consenso sia fondamentale disincagliare il Pd dalle secche, da Matteo Richetti a Luigi Zanda, passando per lo stesso Franceschini, arriva lo stesso fastidio per l’attendismo renziano. Lui ha dichiarato che non guiderà le consultazioni perchè «andrà a sciare», ma le dimissioni a metà e l’ultimo colpo di coda contro il gruppo dirigente non hanno aiutato a rischiarare il clima. Intanto, inizia a delinearsi il post- Renzi: in campo è sceso Carlo Calenda, enfant prodige del governo Gentiloni. Si è tesserato al Pd: «Non bisogna fare un altro partito ma lavorare per risollevare quello che c’è, domani mi vado a iscrivere», ha scritto su Twitter. L’annuncio, che suona come un passo avanti per la segreteria, è stato accolto con entusiasmo da Anna Finocchiaro, Luigi Zanda, Maurizio Martina, Piero Fassino e soprattutto Paolo Gentiloni: nomi sufficienti a imbastire più d’un ragionamento per il dopo. Spunta anche il nome di Sergio Chiamparino, che ha già dato la sua disponibilità a «dare una mano» e chiede a Renzi di «gestire questa situazione in modo collegiale, decidendo insieme le posizioni da prendere». E poi aggiunge: «Non c’è nessun tabù da sfatare. Il partito deciderà in modo collegiale se e quali risposte dare».

La prossima tappa, comunque, rimane l’assemblea di lunedì che verrà ineditamente aperta dal vicesegretario Maurizio Martina, «essendo il segretario dimissionario», con l’obiettivo di «impostare il lavoro per la fase nuova che si deve aprire. Tocca ad altri dimostrare di saper governare».

Eppure tutto è scritto ancora sulla sabbia e da oggi a lunedì molto potrebbe cambiare. A partire dalle sirene a 5 Stelle, che già da qualche giorno puntano ad ammaliare i dem in chiave antirenziana. Sul tavolo di Luigi Di Maio, infatti, starebbe prendendo forma una lista di 10 punti programmatici da condividere con un Pd derenzizzato e il pontiere potrebbe essere proprio l’insospettabile Martina. L’ex ministro dell’Agricoltura, infatti, aveva nel suo dicastero proprio la grillina ministra ombra Alessandra Pesce, che alla sua prima uscita pubblica lo ha definito «un buon ministro». Prove di disgelo in vista delle consultazioni, nell’inedito tentativo di smussare gli angoli a un Pd ancora sospeso tra la lotta e il governo.