Eppure era tutto così chiaro. Bastava guardare la platea accorsa in quel 6 febbraio 1994, e la geometrica potenza che ne sprigionava, per capire come sarebbe finita. Quel pezzo di popolo raccolto nel catino del Palasport di Roma, che Eugenio Scalfari pensando alla campagna elettorale in corso e a chi, nel centrodestra, se ne era assunta la titolarità, avrebbe pochi giorni dopo e con disprezzo sussiegoso bollato come «i clowns che si sono esibiti con i loro volti ricoperti di biacca e di cerone, e così gli acrobati, i comici, le donne- cannone, i giocolieri, i musici e i pulcinella». Invece in quei mesi che segnarono il passaggio dall’inverno della prima Repubblica alla primavera, almeno elettorale, della Seconda, c’era un pezzo d’Italia che non chiedeva altro che ascoltare il suo nuovo Vate, l’imprenditore venuto su dal nulla ( ma no, ma no: dietro e di fianco a lui c’è Craxi, ci sono i vecchi maneggioni, i corrotti e i riciclati, magari perfino la mafia strillavano i suoi avversari: inutilmente), l’uomo del fare pronto a ridare speranze e velleità ai tanti che nei baffetti di Achille Occhetto e Massimo D’Alema vedevano nient’altro che la mal riuscita imitazione dei terribili mustacchi di Stalin, e nella gioiosa macchina da guerra del cartello dei Progressisti ( Pds, Rifondazione Comunista, Socialisti italiani, Rinascita socialista, Verdi, la Rete, Cristiano- sociali e Alleanza democratica) la trasposizione dei cavalli di Koba ( l’Indomabile) Iosif Džugašvili stavolta sul serio ad un passo dall’abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro.

E infatti eccolo lì, Silvio Berlusconi, “l’uomo col sole in tasca”, pronto a battezzare la sua scesa in campo in politica per salvaguardare dalle orde di sinistra «il Paese che amo e che alla fine dei conti è tutto quel che ho, tutto quel che abbiamo». «Siamo per le libertà, tutte le libertà», gridava dal palco. A partire da quella televisiva, il poker d’assi del Caimano che lo aveva reso noto e fatto viaggiare sul carro dorato fin nell’empireo della Politica, addirittura a palazzo Chigi. Era stata una campagna elettorale completamente diversa dalle precedenti, e Silvio era l’Alieno venuto a colonizzare i campi desertificati da Tangentopoli. Linguaggio rivoluzionario, occhieggiante e suadente. Televisioni usate a tutto spiano, col risultato di provocare gli stranguglioni ai cronisti incaricati di seguire il Signore di Arcore: mentre loro gironzolavano nel Transatlantico o bivaccavano davanti alle sedi dei partiti, Silvio mandava cassette registrate con i suoi appelli, e i suoi più stretti collaboratori, da Giuliano Urbani a Cesare Previti, stazionavano sul piccolo schermo offrendo a getto continuo materiale per i titoli dei Tg e dei quotidiani.

Già, le tv. Il pallino di sempre di Berlusconi, l’intuizione che l’avrebbe fatto diventare il tycoon italiano e uno degli uomini più ricchi del pianeta. Con fiuto che lo contraddistingue aveva capito fin da subito la potenzialità del nuovo mezzo. Da quando nel 1978 aveva rilevato da Giacomo Properzj TeleMilanocavo, una tv privata attiva dal ‘ 74 e destinata ai frequentatori di Milano 2, centro urbano corpo e anima dell’altro amore di Silvio: l’edilizia. Due anni dopo l’emittente era diventata TeleMilano e subito dopo TeleMilano58: progenitrice di Canale 5, varata nel 1980. E mica è finita qui. Tra l’ 82 e l’ 84 Berlusconi aveva comprato da Edilio Rusconi e Mario Formenton Italia1 e Rete4: l’impero era pronto a colpire.

Ma il linguaggio, la calza davanti alla telecamera per garantire l’effetto “caldo” del messaggio, le posture, gli ammiccamenti, le barzellette spinte non erano sufficienti ad assicurare il pieno successo alla cavalcata berlusconiana. Ci voleva lo strumento politico. Anche quello Silvio l’aveva intuito. Aveva capito che era lì, a portata di mano, il mezzo che l’avrebbe fatto non vincere bensì stravincere: l’addio al proporzionale, stilema obbligato dello scontro politico dal dopoguerra, e l’arrivo del maggioritario. O di qua o di là, che tradotto nel berlusconese voleva dire o con me o contro di me. Addio al Centro, addio alla Dc, addio al pentapartito e addio sopratutto ai riti bizantini e alle liturgie della mediazione: tutti inglobati meglio: fagocitati - dal “nuovo che avanza”, che non può aspettare nessuno perché ha troppa fretta di insediarsi.

Se Mani Pulite aveva distrutto i partiti storici, la legge elettorale stilata da Sergio Mattarella aveva sparso il diserbante per non farli più ricrescere. E aveva funzionato da propellente per qualcosa che a Berlusconi si adattava come un guanto: il personalismo, la leadership politica unica e indiscussa, il partito- azienda dove il Capo comanda e gli altri ne riconoscono la supremazia e ubbidiscono. Insomma aveva capito che il mondo era cambiato prima e meglio di chiunque, e che l’Italia non aspettava che il suo profeta. «Entro nell’agone politico - spiegherà in una intervista a Panorama - ma non mi faccio prigioniero della politica. Faccio sul serio e constato che gli avversari del momento se ne sono accorti con quel piccolo ritardo che mi fa piacere. Perché renderà meno difficile combatterli». “Piccolo ritardo”? Un abisso altrochè. Uno iato culturale, si dovrebbe perfino dire. E una capacità tutta imprenditoriale di capire qual è il segmento di mercato giusto dove piazzarsi per fare affari e aumentare il capitale. Altrimenti come altro giudicare l’endorsement nei riguardi di Gianfranco Fini, segretario del Msi, partito reietto e ai margini del gioco: qualunque gioco? Fuori dell’arco costituzionale, perciò inutilizzabile. Invece quel mattino del 23 novembre 1993 a Casalecchio sul Reno, non a una riunione di partito ( e quale: Publitalia?) e neppure in un talk show o un in comizio ma al contrario inaugurando l’Euromercato di sua proprietà, Berlusconi non ebbe esitazioni. A Roma si votava per il sindaco e a fronteggiarsi c’erano da un lato Francesco Rutelli e dall’altro proprio il leader missino: «Se fossi elettore nella Capitale? Voterei per Fini, sicuro». In tanti giudicarono quel gesto lo sdoganamento politico dei post- fascisti. Errore. La verità è che Berlusconi aveva assimilato alla perfezione la logica del maggioritario e la stava semplicemente esercitando. Come sempre, aveva visto prima e meglio di tutti. Tutti? Ma tutti chi? Già, perché in quella campagna elettorale c’erano anche gli altri, seppur oscurati. A cominciare dagli alleati di Re Silvio. Geografica- mente divisi: al Nord la Lega di Bossi; da Roma in giù i missini di Gianfranco. Nel mezzo, appunto, Berlusconi perchè quegli altri due non si parlavano. Anzi: si insultavano. «Porcilaia fascista» era il delicato epiteto del Senatur. «Con quelli neanche un caffè», replicava l’ex delfino di Almirante. Era soprattuto Bossi a mordere il freno. L’inchiesta di Antonio Di Pietro aveva spazzato via i partiti storici e l’Umberto s’era intestato il copyright della secessione nordista. E invece si ritrova all’improvviso sorpassato da un Tir in doppiopetto, guidato da un amico di Bettino e con un compagno di cabina come Gianni Letta, quintessenza dell’abilità manovriera profumata di Biancofiore. Bossi è furbo, capisce che senza Berlusconi rimane un prodotto delle valli e non Braveheart. Però trama anche lui. Nei suoi resoconti, Claudio Petruccioli, braccio destro di Occhetto, racconta di un incontro alla vigilia del voto con Roberto Maroni in un hotel di Bologna: «Mi disse che avrebbero vinto le elezioni. E mi chiese se, nel caso la Lega si fosse sganciata subito dopo, avrebbe potuto contare sul sostegno del Pds». Come andò a finire lo sanno tutti: per dettagli chiedere a Lamberto Dini, ministro del Tesoro del primo governo Berlusconi e suo successore a palazzo Chigi. Poi c’era, come detto, Gianfranco Fini. Che incubava Alleanza nazionale «pronta ad abbandonare la casa del padre», e nel frattempo ricordava ad Alberto Statera de La Stampache Mussolini era stato «il più grande statista del Novecento», mentre irrideva agli anatemi della sinistra prontissima ai parallelismi con il neo- premier: «Berlusconi? Non è certo il Duce. Direi piuttosto un grande piazzista».

E poi c’erano quelli a sinistra, i comunisti ridotti ai minimi termini o addirittura spariti dalla geografia politica del Vecchio Continente dopo la caduta del Muro di Berlino e invece continuamente evocati come avversari subdoli e sventolati ad ogni occasione da Berlusconi. Occhetto vestiva di grigio, parlava di «nuovo inizio» e «atto fecondo» cominciato alla Bolognina con l’addio al Pci e l’approdo alla Quercia, e per quanto si sforzasse ( poco, in verità: era sicuro di maramaldeggiare) non riusciva proprio a capire come avrebbe potuto perdere le elezioni dopo la splendida avanzata alle amministrative di pochi mesi prima e l’inconsistenza politica del suo competitor. Quando si aprirono le urne e risultò che Forza Italia aveva raggiunto il 21 per cento surclassando di oltre 300 mila voti il Pds, entrò in confusione. Senza più uscirne. Ma a ben vedere gli avversari più ostici e determinati di Berlusconi furono i magistrati di Milano. Le inchieste a suo carico si moltiplicavano, l’avviso di garanzia speditogli mentre presideva come capo del governo un convegno internazionale sulla criminalità segnerà uno spartiacque nel conflitto tra politica e toghe, aprendo una ferita non ancora del tutto suturata.

Resta tuttavia che quel 27 marzo del 1994, data della valanga vittoriosa del Polo delle Libertà, rimarrà nella storia: e non solo italiana.

Il primo esperimento di governo berlusconiano durerà appena otto mesi, complice il ribaltone del Carroccio e il no a nuove elezioni statuito da Oscar Luigi Scalfaro. Per tornare a recitare da presidente del Consiglio Berlusconi dovrà aspettare ben sette anni: un’infinita traversata nel deserto.

Tuttavia da quella data di 24 anni fa tutto è cambiato: in tanti giurano in peggio, però convengono sul fatto che indietro non è possibile tornare. Il più convinto di tutti, naturalmente, è proprio Berlusconi che da quella marcia trionfale ha patito vicissitudini di tutti i tipi - politiche, giudiziarie, personali - che avrebbero stroncato un elefante e che invece l’hanno solo scalfito. Al punto che il Signore di Arcore è tuttora in pista, convinto di poter ancora una volta primeggiare nelle urne e nei cuori degli italiani. Il suo avversario adesso non sono più i comunisti, non è più la sinistra che anzi adesso elogia nella persona di Matteo Renzi, con il quale coltiva sintonie non trascurabili.

Perfino i giudici azzannano meno: c’è stato Cesano Boscone.

Ora gli avversari sono di altro tipo: interni al centrodestra come Matteo Salvini, e fuori dal circuito politico tradizionale come i Cinquestelle. Il perchè, al di là delle fumisterie della propaganda, è chiaro. «Quello in cui milito non è, non vuole essere e non sarà un partito tradizionale. È un Movimento per cittadini che nascono ora alla politica ma non la intendono come un mestiere a vita» : è così che Silvio presentò Forza Italia. Ora quelle parole e quei concetti li spargono i grillini e Berlusconi li combatte strenuamente sapendo che sono suoi cloni. La storia, ancora una volta, si è ripetuta: però rovesciandosi. L’Unto del Signore può, entro certi limiti of course, anche accettare di perdere. Non però di vedersi sfilato il segno del comando. Comprese le parole per dirlo.