Gravemente malato, da novembre scorso era detenuto nel carcere romano di Rebibbia per scontare una pena di poco meno di un anno, ma il tribunale di sorveglianza non solo ha vietato la concessione dell’affidamento in prova ( visto che parliamo di una condanna inferiore ai 3 anni), ha anche ritenuto che fosse compatibile con la carcerazione.

L’ 11 febbraio si è sentito male, vomitava tantissimo sangue e solo a quel punto è stato ricoverato d’urgenza nell’ospedale Sandro Pertini. In codice rosso, operato di urgenza, l’hanno salvato in extremis, ma poi giovedì scorso il cuore ha smesso di battere ed è morto.

Si chiamava Angelo Di Marco, aveva 58 anni, ma ne dimostrava molti di più. Un romano che faceva una vita ai margini, dedito a piccoli reati e soffriva di diverse patologie epatiche, compresa la cirrosi, che gli avevano compromesso anche il cuore. Era talmente grave che, secondo una relazione medica del Sert di Rebibbia datata 8/ 3/ 2016, le sue condizioni risultavano «mediocri, suscettibili di peggioramento e non compatibili con il regime carcerario».

La sua è una storia emblematica che riguarda tante altre persone come lui. Secondo quanto riferito dai volontari che l’hanno seguito sia dentro che fuori dal carcere, Angelo era una persona che ha vissuto in un contesto ambientale degradato, da giovanissimo era entrato nel tunnel della droga e per procurarsela commetteva alcuni reati, da piccoli furti a spaccio. La tossicodipendenza, unito all’alcolismo, l’ha portato in un vicolo senza uscita, sia mentale che fisico. Eppure, negli ultimi anni, aveva chiesto aiuto. È stato seguito sia dal Sert che dal dipartimento sanitario mentale, ma non si trovavano strutture socio sanitarie disposte ad ospitarlo. Troppo vecchio per una comunità di recupero, troppo giovane per una casa famiglia con persone fragili. Un continuo rimpallarsi tra il Sert e l’azienda sanitaria locale, e se non fosse stato per la disponibilità di alcuni volontari, sarebbe rimasto completamente da solo. Ed effettivamente lo era, in balia dell’inconsistente gestione socio sanitaria esterna e l’assistenza sanitaria carceraria che presenta tuttora numerose criticità. Parliamo di un caso che Marcello Dell’Utri - stavano nello stesso reparto G 14 di Rebibbia – ha segnalato al suo legale di Antigone Simona Filippi. Che è stata nominata dal detenuto sua avvocata venti giorni prima che morisse. «Quando facevo i colloqui con lui - spiega l’avvocato a Il Dubbio - si vedeva che stava malissimo, il viso era giallo e non si reggeva più in piedi».

Stava male Angelo, ma già prima di essere condannato. Per questo, tramite un avvocato d’ufficio, aveva richiesto l’incompatibilità, oltre alla sospensione della pena visto la piccola entità della condanna. «Nel fascicolo di rigetto che poi ho avuto modo di visionare – spiega sempre l’avvocata Filippi –, su due paginette e mezzo, non c’è uno straccio di documento medico. Lo mandano in carcere de- dicando solo due righe sul discorso della presunta compatibilità con il carcere».

In sostanza, il tribunale di sorveglianza non ha ritenuto di acquisire documenti che certificavano il suo stato di salute. Per i magistrati, Angelo Di Marco poteva senza dubbio essere curato in carcere. La mattina di domenica 11 febbraio, Angelo si sente male e gli esce dalla bocca un po’ di sangue, ma – secondo quanto ricostruito dai sui compagni di sezione - per i medici che l’hanno visitato la cosa non desta allarme. Il pomeriggio, però, comincia a peggiorare vomitando nuovamente sangue, ma così tanto da riempire un secchio. Gli stessi detenuti dell’infermeria hanno cominciato a protestare per chiedere soccorsi. Solo a quel punto viene trasportato di urgenza all’ospedale e lo operano. Uscito dalla camera operatoria, lo hanno allettato nel reparto ospedaliero civile, con tanto di piantoni. L’avvocato Simona Filippi, nel frattempo, alla luce di quello che era successo, è riuscita a fissare un’udienza urgente con il tribunale di sorveglianza. Ma oramai era troppo tardi. Dopo pochi giorni Angelo muore, in solitudine, in un letto di ospedale.