In una prima settimana di campagna elettorale avara di forti emozioni, le prime schermaglie arrivano da due grandi vecchi, ex compagni e già allora nemmeno troppo velatamente un contro l’altro armati. Il primo a dar fuoco alle polveri è Romano Prodi, uomo simbolo della sinistra, iconico leader della provvidenza con l’Ulivo e l’unico ad aver sconfitto Berlusconi in un confronto diretto. Qualche giorno fa, ad Affaritaliani. it, confida che il 4 marzo voterà Pd, perché «ho sempre lavorato per l’unità del centrosinistra» e «Liberi e Uguali non è per l’unità. Renzi, il gruppo che gli sta attorno, il Pd e chi ha fatto gli accordi con il Pd sono invece per l’unità del centrosinistra».

Un endorsement, quello del Professore, che ha pesato soprattutto alle orecchie attente dell’elettorato di sinistra, che ancora si dibatte spaesato dopo la dolorosa scissione di D’Alema e soci. Un popolo - come si diceva ai tempi dell’unità - che fatica a decidersi tra l’intransigenza di Liberi e Uguali ( che ha fatto degli ex compagni il principale bersaglio della loro campagna elettorale) e il centralismo del Partito Democratico ( schiacciato sul renzismo e ancora alle prese con gli strascichi del dopo- presentazione delle liste).

Per questo che le parole di Prodi hanno fatto stizzire soprattutto i fuoriusciti dal Pd, che si sono trovati davanti a un dilemma insolubile. Attaccare uno dei pochi padri nobili rimasti, proprio quello che tutti riconoscono come l’artefice della stagione d’oro della sinistra, significava attirarsi il fastidio dei militanti storici. Non rispondere, invece, voleva dire avallare una lettura della realtà contraria alla retorica di Leu: quella secondo cui è Renzi l’oscuro sabotatore dell’unità del centrosinistra.

A stretto giro era arrivato un imbarazzato commento di Piero Grasso, sempre più silente e lessicalmente poco in sintonia con la sinistra dura e pura che aspira a rappresenta- re, ma a buttare il cuore rosso oltre l’ostacolo e ad archiviare definitivamente l’ultimo totem della sinistra, ci ha pensato l’intramontabile Massimo D’Alema. Ringiovanito nella veste che più gli si addice quella di candidato in campagna elettorale ( dopo lo stop imposto dalle regole del Pd e vissuto come lesa maestà) - e forte della ritrovata verve, non si è lasciato scappare la stoccata. Del resto, la vendetta si gusta fredda anche a due giorni di distanza dalla bordata del Professore, e l’occasione è quella più ghiotta: le presentazione delle liste di Liberi e Uguali in Puglia, dove è candidato. A chi ieri gli ha chiesto di soppesare i danni in termini di voti della ramanzina di Prodi, ha risposto con la proverbiale flemma: «Prodi ha anche fatto un appello a votare sì al referendum. Ogni tanto fa degli appelli, non è detto che vengano raccolti». Una stilettata sottile, che in bocca a D’Alema ha un che di liberatorio e che traccia idealmente uno spartiacque definitivo, recidendo il cordone ombelicale già un po’ slabbrato con il nome che ha sempre saputo unire il centrosinistra. E a poco sono servite le parole balsamiche di Laura Boldrini, «dispiaciuta che il professor Prodi abbia fatto quell’affermazione; penso, però, abbia sottovalutato l’indisponibilità di Renzi a fare l’alleanza».

Così, con uno sberleffo nato da un’incauta dichiarazione di Prodi ( che non a caso si era precipitato a rettificare, pur non potendo rimangiarsi il senso della frase, e ieri ha aggiunto: «non farò campagna elettorale» ), D’Alema archivia la retorica della mitologica “stagione dell’Ulivo”. L’eredità, almeno sulla carta, va al Pd, che ne rimane il frutto forse non più maturo. A Leu, invece, spetta in dote l’eminenza grigia di quella stessa stagione, quel Lider Maximo che non si è mai lasciato scappare la battuta e non conosce lesa maestà se non la propria.