«Volevo tirare fuori la verità del testo shakespeariano. Perché il Bardo, qui, si è divertito e ha voluto divertire più che altrove, fantasticando tra inconscio e ragione, scherzandoci sopra. E’ la più pop delle sue opere e questo mi ha attratto perché ho sentito di averne compreso a pieno il senso».

Max Bruno, con il dono della sintesi e dell’analisi che ha anche nei film, riesce in poche parola a svelarci il segreto del suo adattamento ( con Francesco Bellomo) di Sogno di una notte di mezza estate, che dall’Arena di Verona fino al Teatro Eliseo, dove sarà fino al 28 gennaio, sta riscuotendo garnde successo di pubblico e di critica. E arriva quest’ambiziosa sfida teatrale - il palco non è sconosciuto a Bruno, che ha costruito la sua drammaturgia con testi straordinari che hanno trovato l’apice in Zero, Nessuno e Gli ultimi saranno gli ultimi - in un momento cruciale della carriera del regista, attore e sceneggiatore. Quella sensibilità e quel talento che aveva seminato tra film, pièce, serie tv, ora arri- vano fino a Shakespeare e a un libro, Non fate come me ( edito da Rizzoli), di commovente e spietata lucidità, un romanzo di ( tras) formazione che mette al centro un antieroe che forse ha sbagliato tutto e che dopo un trauma parte alla ricerca di se stesso e dei propri fantasmi. «Non so se è un anno di svolta, ma è un momento della mia vita in cui mi sento molto vero come autore. Il romanzo e la regia teatrale di un’opera di Shakespeare sono state un esperimento di cui avevo bisogno». Fuori dalle etichette, dalle icone come Martellone ( in Boris), da un mercato asfittico che rischia di schiacciare chi come lui ci mette sempre qualcosa in più.

L’impressione è di ritrovarlo più completo, più forte, nella commedia come nell’approfondimento psicologico, senza perdere la vena caustica, ma acquistando uno sguardo più ampio e complesso. Ecco dov’è l’incredibile e trascinante forza di Sogno di una notte di mezza estate, nella goliardia di un autore che non ha paura di raccontare cialtroni e innamorati, buffonerie e malinconie, colori e ombre.

Sogno di una notte di mezza estate è un’opportunità e una trappola per ogni autore: dal teatro al cinema chiunque lo abbia affrontato ha scontato la profonda carica seduttiva del testo e delle dinamiche emotive tra i personaggi, del carnevalesco susseguirsi di situazioni e sentimenti, del gioco anche perverso che Shakespeare si diverte a sparigliare in una sorta di ballo collettivo. Tutto all’interno di una «patria randagia di zingari circensi e ambivalenti creature giocherellone», come li definisce il regista stesso, che lui ha saputo scegliere e valorizzare.

Bruno ha ragione, ha capito lo spirito del testo, ne ha colto la forza ancestrale ma anche la continua provocazione emotiva e intellettuale, sul significato vero dell’amore, fuori dalle retoriche e dentro la carne, la fantasia, la volubilità di uomini e donne. Uno spirito compreso e indossato alla perfezione dal cast. Non solo i grandi nomi, da quel Bottom interpretato da uno Stefano Fresi che sa essere vanaglorioso e infantile con delicatezza, a una Violante Placido che in un dop- pio ruolo, come Giorgio Pasotti ( che Oberon il suo, anche un po’ politicamente scorretto), sa tirar fuori voce e carisma per una Titania che ti cattura, come lo fa lo sguardo disorientato e dolce di Ippolita. Passando per Puck, folletto dispettoso e narratore invadente, che ha le fattezze e i sorprendenti cambi di tono di Paolo Ruffini, qui abile nel gestire il corpo quanto la parola. C’è tanto altro, però, in questo lavoro, c’è il passato del suo regista, incarnato da quel Quince indossato come un guanto da Maurizio Lops, che nei primi spettacoli dal vivo di Bruno c’era ( parliamo di 25 anni fa) e che è spesso comparso nei suoi film. Il suo capocomico è divertente, generoso, calibrato nella mimica, nella gestualità, nella voce e nella musicalità che gli dà l’attore e che alla fine gli vale più di un applauso entusiasta per quello che è, decisamente, uno spettacolo nello spettacolo. La più bella sorpresa è senza dubbio lui.

C’è anche il presente e il futuro di un autore che sta crescendo, ancora, e prendendosi spazi importanti, perché ha curiosità e altruismo, perché cerca il nuovo in facce diverse. Da anni porta avanti un laboratorio teatrale di arti sceniche, ogni anno lo Short Lab è un appuntamento in cui si sfidano corti teatrali sotto l’egida della sua volontà di dare ai giovani un’opportunità vera. E anche qui ci sono tanti bei talenti, dal poker di innamorati (Alessandra Ferrara, Tiziano Scrocca, Claudia Tosoni e Antonio Gargiulo) che più eccessivi non si può, a un Rosario Petix che si divide tra Egeo e Snug, a Dario Tacconelli e Zep Ragone che rendono ancora più sgarrupata la compagnia teatrale degli artigiani, fino ai visi puliti e alla presenza divertita e discreta di Annalisa Aglioti e Sara Baccarini.

Raro godersi un progetto così ambizioso, nel teatro italiano, una messa in scena che non si nasconde dietro un monologo o un duetto, ma cerca il teatro dalle scenografie e dai costumi curati e particolarissimi, e con un lavoro sulle musiche mai banale: che intuizione usare come canzone guida Black Hole Sun, così come citare i Beatles all’inizio (Something di George Harrison). Roberto Procaccini si diverte a giocare con mezzi e melodie, trovando una puzzle di note adatto ai continui cambi di rotta. Dal rap sgangherato al pop, quasi a voler viaggiare in parallelo al lavoro di riscrittura che è alla base dello spettacolo. Già perché Bruno non ha paura di sorprenderci con un lavoro sul linguaggio soprattutto dei “comici”, padroni di un idioma improbabile che mischia modernismi e arcaismi, anglicismi e finte espressioni auliche - per piazzare, proprio come faceva Shakespeare, la sua visione sulle diverse forme d’amore. Senza timori reverenziali né perbenismi, perché alla base c’è il piacere, di giocare, di raccontare e sì, anche di amare.