Anche con le migliori intenzioni è difficile evitare la sensazione di una rotta un po’ sgangherata. Ieri il cdr di Repubblica ha risposto con un comunicato durissimo alle critiche del suo stesso editore, Carlo De Benedetti, che «si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta». Poi i redattori si sono riuniti in assemblea per fronteggiare l’assalto del «nemico interno». Immancabilmente nei prossimi giorni arriverà la replica, prevedibilmente rigida, del padre fondatore strapazzato dall’Ingegnere dal salottino tv di Lilli Gruber: Scalfari «l’ingrato» a cui De Benedetti ha «dato un pacco di miliardi», il «vanitoso» che tra Berlusconi e Di Maio ha scelto il primo invece di rispondere come da copione «né l’uno né l’altro», il «signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Il rimbambito, insomma.

Non è stata solo la violenza davvero inusuale degli attacchi dell’editore a Repubblica e all’ex amico Scalfari a suscitare quell’impressione di caduta degli dei che si ricavava inevitabilmente dall’intervista di Carlo De Benedetti. L’Ingegnere voterà Pd, però, come si diceva ai bei tempi, turandosi il naso, avendolo Renzi ' deluso'. Sul caso increscioso di insider training sulla riforma delle Popolari, poi, l’editore di Repubblica si è arrampicato palesemente sugli specchi, essendo a disposizione del colto e dell’inclita l’intercettazione che lo sbugiarda. Il segreto della sbandata mediatica sta probabilmente in quella telefonata ricevuta dal nemico di sempre, Silvio Berlusconi, «dopo la stupidaggine che ha detto Scalfari».

Il Cavaliere offriva la pace in nome dell’asse contro il nemico comune, quell’M5S che De Benedetti, Scalfari, Berlusconi, Renzi e Moscovici, divisi su tutto il resto, considerano il pericolo pubblico numero uno nella Penisola. L’offerta è stata respinta al mittente con il dovuto gelo: «Ho risposto che non faccio politica». Ma il senso di quella stupefacente telefonata resta tutto: a comporre il numero è stato chi dalla guerra iniziata trent’anni fa a Segrate esce oggi vincitore, vicino a trionfare sul fronte decisivo che col tempo è diventato quello della politica e non più quello della competizione aziendale a colpi di sgambetto.

Quando è cominciata la guerra il Cavalier Berlusconi e l’Ingegner de Benedetti erano due industriali rampanti, molto diversi ma con in comune qualcosa che avrebbe potuto persino spingerli verso un’alleanza. Erano gli intrusi, i nuovi arrivati che tentavano di incrinare e infrangere il potere assoluto delle grandi famiglie del capitalismo italiano: erano parvenu. Seguivano strategie distinte: l’Ingegnere manteneva un piede fuori e uno dentro il mondo dei salotti comme il faut, il Cavaliere tentava l’arrembaggio solo dall’esterno. Politicamente appoggiavano e si appoggiavano a partiti diversi ma alleati nel pentapartito. De Benedetti, intimo di Bruno Visentini, era vicino al Pri, il partito di La Malfa, Spadolini e della borghesia illuminata. Berlusconi si beveva Milano e non solo quella con il socialista grintoso, Bettino Craxi. Si diedero battaglia, per questioni d’interesse ma anche per incompatibilità di carattere. Lo sbotto di Berlusconi alla notizia di quella soffiata di Renzi che permise all’ingegnere di guadagnare 600mila euro di plusvalenze in un batter d’occhio, «L’hanno preso con le mani nella marmellata», era di cuore.

I duellanti hanno incrociato le lame davvero su tutti i fronti: in quello torbido delle scalate aziendali, nelle aule di tribunale, con un risarcimento di quasi mezzo miliardo versato dal proprietario Fininvest a quello Cir come risarcimento per l’acquisizione con mezzi indebiti di Mondaori, ma anche nelle battaglie navali tra fregate mediatiche e poi, sempre di più, direttamente nell’agone politico. Il sire di Arcore in prima persona, costretto dalla re- pentina uscita di scena del suo protettore Craxi, a impegnarsi direttamente per difendere il suo biscione. De Benedetti invece ha sempre preferito tenersi dietro le quinte, ma se c’è stato un vero capo del centrosinistra, diretto antagonista del Cavaliere nel ventennio e passa che gli storici definiranno sbrigativamente ' il berlusconismo', è proprio lui.

Quando De Benedetti vantò «la tessera numero uno» del Pd Veltroni di fatto confermò fingendo di smentire: «Quella fu una boutade! Certo però i suoi giornali hanno avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione della sinistra italiana. La sua è una cultura non ideologica ma molto seria, rispettosa della produttività dell’impresa e delle regole del gioco e attenta alla giustizia sociale». Una fotocopia del dna che, secondo il suo primo segretario, il Pd avrebbe dovuto poter vantare. Oggi quel partito moderato di sinistra che doveva veicolare la rappresentanza del nuovo capitalismo rampante italiano, diverso da quello all’arrembaggio di Berlusconi ma anche da quello eterno delle grandi famiglie è alle corde.

Se il ' deludente' di Rignano tornerà al governo, e di certo non in prima persona ma per interposto Gentiloni, sarà grazie all’alleanza col nemico di Arcore, il cui prezzo sarà certamente esoso. Se si dovrà tornare alle urne in breve tempo, a giocarsi la partita saranno la plebe stracciona di Di Maio e quella ripulita di Berlusconi, che è anche il solo attore politico a poter sperare in una vittoria secca il 4 marzo. Il partito modellato dall’esterno da De Benedetti, dopo la guerra dei trent’anni è un comprimario guidato da un leader di cui lo stesso ingegnere ha detto chiaramente, di fronte alla commissione parlamentare sulle banche che «di economia, onestamente, ci capisce veramente poco» e che in privato pare definisca più sinteticamente: «Un cazzone».

Se del caso, Carlo De Benedetti, il riformista illuminato ha sempre giocato durissimo. Non a caso nel breve periodo trascorso in Fiat prima di essere messo alla porta dall’Avvocato lo chiamavano ' la tigre' perché, come scriverà decenni più tardi Stefano Merlo, era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli». Ma stavolta non si tratta solo di mano pesante. Se davvero ci fosse la mano dell’Ingegnere dietro il falso scoop della Stampa, titolone con notizia di un’indagine sulla vendita del Milan adoperata a scopo di maxi- riciclaggio da Berlusconi seguito da drastica smentita del procuratore Greco, sarebbe un preciso segnale di disperazione e sbandamento.

A peggiorare la situazione ci si mette del resto anche l’appello del processo per i morti d’amianto alla Olivetti di Ivrea. Il primo grado si è concluso con una condanna a cinque anni per l’Ingegnere. Se la sentenza fosse confermata il rischio di dover seguire la strada di Berlusconi, tra carcere e affidamento ai servizi sociali, diventerebbe molto concreto. Ma in questa italianissima Guerra dei trent’anni ( per ora) colpi di scena e ribaltamenti imprevisti non sono mai mancati. Non è detto che sia finita qui.