Una grande invettiva. Più che una requisitoria, quello del pm Nino Di Matteo pare un bombardamento al veleno, che non risparmia nessuno. Mette su un unico, virtuale banco degli imputati figure incompatibili: Oscar Luigi Scalfaro e Silvio Berlusconi, Nicola Mancino e Marcello Dell’Utri, Luciano Violante e Giuseppe De Donno. Alcuni, come Dell’Utri, sono effettivamente imputati al processo che il magistrato ieri ha continuato a ricapitolare, l’imponente “Stato– mafia”. Altri hanno avuto il torto, pur senza commettere atti perseguibili, di aver parlato tardi. “Personaggi come Martelli e Scalfari hanno ritrovato la parola solo dopo aver sentito le dichiarazioni di Massimo Ciancimino”. Ma è il meno. Alla fine, nella sua coazione a ripetere la storia della trattativa, Di Matteo è costretto a difendere l’attendibilità di Ciancimino e Riina.

Inevitabile in termini di tecnica processuale, rivendicare la “purezza” delle loro dichiarazioni. Intercettate nel cortile del carcere di Opera, nel caso del capo dei capi; rilasciate alla Procura di cui Di Matteo ha fatto parte, quella di Palermo, nel caso del “superteste” del processo.

SCALFARO E VIOLANTE

Non è una giornata qualsiasi. Questa nuova puntata del lungo racconto offerto, nell’aula bunker dell’Ucciardone, dalla Procura alla Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto sarà a lungo ricordata come un’avvelenata degna di un comizio. A colpire sono soprattutto le parole che il magistrato, oggi in servizio presso la Dna, riserva a due figure del calibro di Scalfaro e Violante. A ben guardare, l’uomo asceso al Colle dopo la strage di Capaci diventa un burattinaio della trattativa. Curioso che non si fosse pensato a incriminarlo, quando era in vita, alla luce delle parole rimbombate ieri in Aula: “Scalfaro con il suo attivismo e le sue decisioni non si è limitato al ruolo di arbitro”. Primo colpo. Il secondo: “È stato il principale attore delle decisioni che in questo processo abbiamo dimostrato: la nomina di Mancino al posto di Scotti, quella del nuovo direttore del Dap e di Conso al ministero della Giustizia al posto di Claudio Martelli. Il ruolo di Scal- faro nell’avvicendamento tra Scotti e Mancino ha fatto emergere le evidenti reticenze e falsità delle sue stesse dichiarazioni, rese a questa Procura nel 2010”. Reticenze? “Scalfaro addirittura dichiarò di non sapere nulla dell’avvicendamento al Dap tra Amato e Capriotti”. Falsità? “Ci disse anche che non aveva mai saputo nulla della connessione tra il 41 bis e gli episodi stragisti”. Eppure, incalza il pm Di Matteo, “un altro ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 28 ottobre 2014, ci disse che ‘ dopo gli attentati del 1993, nei discorsi tra le più alte cariche dello Stato era chiaro che quelle bombe corrispondevano a un ricatto’ dell’ala corleonese di Cosa nostra”. Ma come si può sostenere che il collegamento tra stragi e richiesta di annullamento del 41 bis era dato per certo dalle più alte cariche della Repubblica nel 1993 e far discendere da tale diffusa consapevolezza le manovre di Scalfaro per sostituire Martelli e Scotti risalenti a un anno prima? Non è il solo punto in cui, nella sua veemenza, la requisitoria di Di Matteo pare difettare di logica.

In ogni caso Scalfaro è una delle anime nere della storia d’Italia, se le parole pronunciate ieri dal pm hanno un senso: “Ci si doveva spostare verso la linea del dialogo, e per fare questo era necessario spezzare l’asse della fermezza portato avanti dall’azione congiunta di Scotti e Martelli”. Ed ecco quello che per il pm è “l’attivismo” del defunto ex Capo dello Stato.

Violante? Dalla ricostruzione ne viene fuori una figura cauta e opportunista: insieme con Martelli e Liliana Ferraro, “aveva sempre taciuto”, nonostante fosse stato sentito più volte sui periodi delle stragi, sia “nei processi a Caltanissetta” che “in commissione Antimafia”. Ebbene, l’ex terza carica dello Stato “ha voluto essere sentito dopo avere letto un articolo sul Corriere della Sera in cui Massimo Ciancimino aveva detto che il padre Vito gli aveva chiesto di parlare con Violante”. Corse in Procura solo per timore che si dicesse male di lui, non per altro. E un’altra figura di grande rilievo della sinistra italiana degli ultimi trent’anni è sistemata.

IL BUON MARTELLI

Ma pure Martelli, il buon Martelli, ha aspettato che Ciancimino vuotasse il sacco: fino ad allora aveva, come Violante, assunto “un atteggiamento prudente, volto a cerare di salvaguardare gli imputati. Mentre al di fuori del processo, in tv”, entrambi avevano criticato “l’impianto accusatorio”, poi “consolidato” dalle “loro dichiarazioni” ai magistrati. Violante e Martelli sono due voci importanti quasi quanto Massimo Ciancimino, nella lunga ( molto lunga) marcia palermitana verso la verità. Il primo rende una testimonianza “eccezionale” quando afferma: “Mario Mori, dopo che mi insediai come presidente dell’Antimafia, mi chiese la disponibilità a dei colloqui riservati con Vito Ciancimino. Mi disse di non avere informato l’autorità giudiziaria su questi incontri perché la finalità era di tipo politico”. Martelli racconta della visita di De Donno alla direttora del dipartimento Affari penali di via Arenula, Ferraro: il capitano andò al ministero a chiedere “un sostegno politico alla loro iniziativa di incontrare Vito Ciancimino”.

IL CLOU, AL SOLITO, CON BERLUSCONI

Montalto ascolta. I pm che sostengono l’accusa con Di Matteo, pure: Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Lui, il magistrato finito alla superprocura Antimafia, va avanti con la grazia di un rullo compressore: spiega che la “Trattativa” era iniziata con Riina, ispiratore se pure non autore materiale del papello, e poi andata avanti con Provenzano. Che nell’ormai famosa intercettazione a Opera del 2013, Riina spiega al compagno di socialità Alberto Lorusso come Binnu fosse uno “spione” che, dice Di Matteo, aveva “venduto” Totò. E che ancora, il capo dei capi definì Dell’Utri “una persona seria”. Fino alla tradizionale colata di letame su Berlusconi, un po’ scombinata a dire il vero. Perché, sì, Di Matteo ricorda che secondo Riina “i Graviano avevano Berlusconi”, e che lui, il superboss, non aveva certo bisogno di Giovanni Brusca per mettersi in contatto col Cav. Ma poi dice anche che Berlusconi lo avrebbe cercato “in qualche nodo” finché lui, Riina, non gli fece saltare i ripetitori circa 6 volte. Come a dire: il fondatore dell’impero Fininvest era preoccupato dei ricatti mafiosi. Non una scoperta sconvolgente. Ma non è il solo aspetto, nella confusa raffica sparata ieri, ad avere poco a che spartire con una precisa definizione delle accuse.