«Io dico che dobbiamo farlo con strumenti diversi dall’Anac. Ma una cosa è certa: va riqualificata la classe politica e le va restituito l’onore. Si deve tornare all’idea che del pubblico potere il nostro Paese ha avuto fino a qualche lustro fa. Altrimenti rischia di prevalere un fronte composto da antagonisti della politica, anche da magistrati, in grado di sovvertire il nostro ordine costituzionale». Stefano Parisi potrebbe passare per l’ultimo arrivato della coalizione. Non è l’ultimo arrivato quanto a freschezza di analisi. Sarà l’usura del tempo che non lo riguarda, almeno rispetto all’attività politica, a cui si dedica da poco. Ma il fondatore di Energie per l’Italia pare tra i primi del suo campo a percepire il processo di espansione dei cinquestelle, grazie alla virata “magistratuale” di Liberi e uguali, con cui i grillini potrebbero saldarsi, e che potrebbe addirittura mettere in pericolo il primato dato già da tutti per acquisito al centrodestra, quello di coalizione più votata.

La coesione del centrodestra a volte è data in pericolo: si può dire che la difesa della presunzione di non colpevolezza è un minimo comune denominatore sicuro?

Sarebbe bene che non sia solo il nostro ma di tutti i democratici italiani. Spero che la nostra civiltà giuridica non sia in pericolo al punto che possa essere messo in discussione il principio di cui parliamo.

Ecco, ma allora perché lei vuole abolire l’Anac, che può scongiurare l’abbatersi delle inchieste sugli appalti?

Guardi, innanzitutto parliamo di un’autorità indipendente che emana norme e già per questo è un mostro giuridico: interviene in maniera preventiva sui comportamenti di una amministrazione pubblica, si pronuncia su tutto ciò che può implicare rischi di corruzione, e questo in un quadro in cui abbiamo già una gerarchia di fonti normative affollata. È un elemento che crea ulteriore confusione e incertezza.

Non che la situazione preesistente fosse di per sé positiva.

Ci mancherebbe: il punto è che l’Anac non riesce a prevenire la corruzione. La ragione è semplice: incide solo su una percentuale minima di transazioni, di appalti. Le procedure di cui sarebbe potenzialmente chiamata ad occuparsi sono talmente tante che il più sfugge, se ne scelgono solo alcune e in qualche caso dopo che la vicenda ha avuto clamore mediatico. Credo sia stata solo un inefficace diversivo.

D’altronde se pure si attribuissero le funzioni dell’Anac a una Corte dei conti rinnovata, come lei propone, servirebbero molte più risorse per vigilare minuziosamente su ogni singolo atto.

E no, scusi, ma non è una questione di risorse. È l’approccio del controllo pubblico che è complessivamente sbagliato. Mi riferisco al fatto che nel nostro sistema prevale la verifica sulla correttezza formale e la copertura finanziaria dei progetti: non si considera la loro economicità, la congruità dei costi rispetto ai prezzi di mercato. Non c’è un vero controllo di gestione. E sa perché?

Lo dica.

In un’azienda privata chi effetua il controllo di gestione è laureato in Economia, in Fisica, in Matematica. Nel nostro sistema pubblico sono tutti laureati in Giurisprudenza. Nessuno che sappia, come si dice, far girare i numeri. Dalle aziende private si mutuino anche princìpi come il coinvolgimento del fornitore: lo si vincola al raggiungimento degli obiettivi. Sono strumenti privatistici di cui la nostra macchina pubblica ha un enorme bisogno.

Al magistrato Cantone però bisogna dare atto di non aver avuto occhi di riguardo nei confronti dei colleghi: quando si è trattato di far emergere anomalie nell’informatizzazione del Palazzo di giustizia di Milano, che coinvolgevano anche i vertici degli uffici giudiziari, è andato fino in fondo.

Sono bandierine che non cambiano la sostanza. Ma abbiamo idea di quante sono le transazioni che vedono coinvolti soggetti pubblici? Non è che possiamo farci ipnotizzare da un fenomeno mediatico, non è che se Cantone fa le pulci ai magistrati ci sentiamo tranquilli perché dimostra di essere libero o addirittura eroico. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di un sistema che tolga il brodo di coltura alla corruzione. Quindi innanzitutto di persone integre e di un sistema di controlli che sia interno e non fuori dalle amministrazioni. Oltre che di un Codice degli appalti riscritto da capo.

Obiettivo che ha messo in cima al programma.

L’obiettivo vero è dotare la macchina dello Stato di amministratori in grado di far girare risorse senza rubare, di investire i miliardi che non riusciamo a spendere. Io, liberale, voglio eccome uno Stato imprenditore, non un sistema utile a far girare solo le interviste di Cantone.

Che ruolo darebbe agli Ordini professionali nel definire le strategie per il Paese?

Le professioni possono, anzi devono essere un fattore decisivo. Il senso della nostra idea di sussidiarietà è proprio questo: c’è un livello di professionalità all’interno degli Ordini, che hanno una capacità di autoregolazione e possono svolgere funzioni pubbliche, se c’è dunque una via certa per abbattere la spesa consiste nell’assegnare funzioni pubbliche al privato, dunque anche alle organizzazioni professionali. Non a caso molte delle nostre soluzioni sono state definite con gli Ordini.

Il Consiglio nazionale forense, il Consiglio dei commercialisti e il Consiglio nazionale del Notariato hanno da poco costituito un nuovo soggetto, Economisti e giuristi insieme, che si appresta a presentare proposte ai partiti da inserire nei programmi: che ne pensa?

Lo chiede a me? Alle Politiche del 2001 Confindustria, di cui ero direttore generale, presentò ai candidati premier di centrodestra e centrosinistra un vero e proprio programma di governo. Le lobby non vanno fatte sotto banco, va messo tutto sul tavolo. Libere poi le forze politiche di assecondare le sollecitazioni e gli Ordini di sentirsi, eventualmente, presi in giro.

L’antipolitica si ferma anche con la difesa dei politici dalla presunzione di colpevolezza, per chiamarla così?

Certo. Si deve tornare al tempo in cui la politica era rispettata. Il centrodestra può riuscirci ma deve tenere presente che battere il vero avversario sarà difficile e che senza di noi non può farlo.

Il vero avversario di cui parla sono i Cinquestelle?

Parlo del fronte che può collegarsi a loro e che ora con Grasso può estendersi fino a pezzi del Pd. È un rischio vero: si può arrivare a un fronte in cui troviamo antagonisti e magistrati che insieme puntano a sovvertire il nostro ordine costituzionale di separazione dei poteri. Forse il centrodestra non se ne rende conto, ma qui c’è chi vuole distruggere e sovvertire il sistema politico. L’unica risposta è rilanciare la dignità della politica con persone integre e dignitose: c’è un grande percorso da fare che non si esaurisce in questa campagna elettorale ma che intanto va iniziato.