Ieri si è tenuta, davanti a Montecitorio, una manifestazione convocata dal sindacato dei giornalisti ( i giornalisti sono organizzati in un sindacato unico, a differenza degli altri lavoratori che godono del pluralismo sindacale) e dall’Ordine dei giornalisti. La manifestazione aveva due obiettivi: denunciare il precariato che rende sempre più difficile la vita professionale di molti giornalisti; e denunciare la cosiddetta legge- bavaglio, cioè quella che mette un minuscolo freno all’abitudine di spiare la vita degli altri e spiattellarla sui giornali.

I due obiettivi non sono compatibili. Per la semplice ragione che la lotta al precariato è un’ottima cosa. Ottima e necessaria. Mentre invece la lotta alla cosiddetta leggebavaglio è una clamorosa sciocchezza. Che va contro gli interessi dei giornalisti veri. Anche perché quella contro la quale ci si batte non è una legge- bavaglio, ma una civilissima legge ( parecchio timida, per la verità) che cerca di portare lo Stato di diritto italiano un po’ meno lontano dagli standard europei ( oggi, nel campo delle intercettazioni, siamo molto più vicini alla Germania di Honeker e di Ulbricht, la famosa Rdt, che alla Gran Bretagna).

Nei vari comizi che hanno tenuto in piazza Montecitorio, i leader del sindacato dei giornalisti hanno insistito non moltissimo sulla questione del precariato, ma hanno insistito molto sul “bavaglio” che limita la pubblicazione delle intercettazioni, sulla depenalizzazione del reato di diffamazione e sulla questione della querela temeraria. Proviamo a esaminare uno ad uno questi quattro problemi.

PRECARIATO. Su questo niente da dire. Il sindacato fa benissimo a chiedere che sia imposto un alt al precariato e allo sfruttamento selvaggio dei giovani giornalisti. Le leggi introdotte ( ahimè) ai tempi dei primi governi di centrosinistra ( Prodi- D’Alema- Treu-Bersani) e poi confermate e inasprite dal centrodestra e non rovesciate dal nuovo centrosinistra renziano, hanno permesso agli editori di usare il precariato senza limiti per comprimere il costi del lavoro. In modo davvero esagerato. Operazione in parte resa necessaria dalla crisi di vendite e di pubblicità dei giornali ( ma non delle televisioni), in parte dall’azzeramento dei finanziamenti pubblici, secondo la vecchia idea che con la cultura non si mangia e che la cultura ( e l’in- formazione) o regge alle dure regole del mercato o è meglio che muoia ( idea dilagante nel campo della destra e del grillismo, ma che ha fatto proseliti anche nel centrosinistra).

In parte poi il precariato e l’aumento dello sfruttamento sono serviti a incrementare i profitti degli editori ( non tanto nella carta stampata ma nelle Tv). Ieri Laura Boldrini ha detto che gli editori sono miopi, perché con il precariato non riusciranno mai a produrre giornalismo di qualità. Verissimo. Però è chiaro che non si può chiedere agli editori di risolvere loro il problema della crisi del giornalismo ( e quando, tra qualche riga, arriviamo a parlare delle intercettazioni, vedremo che in questa crisi le intercettazioni c’entrano, eccome): il compito tocca innanzitutto agli stessi giornalisti ( guidati però, oggi, da organismi che sembrano lavorare per il re di Prussia) e poi alla politica ( guidata però da leader che sembrano sempre meno interessati alla questione informazione).

DEPENALIZZAZIONE dei reati di diffamazione. Giustissima. I leader del sindacato hanno proclamato la necessità di impedire che i giornalisti accusati di diffamazione finiscano in carcere. Stra- giusto. Però una osservazione va fatta: nessun giornalista è in carcere in Italia. L’ultimo condannato e mandato a scontare la pena fu Alessandro Salllusti, il quale fu tenuto per qualche giorno ai domiciliari in casa della Santanché, per colpa di un giudice che probabilmente voleva vendicarsi e non concesse la condizionale. Prima di lui si conosce il caso di Giovannino Guareschi, che risale, se non sbaglio, ai primi anni cinquanta, e poi il caso di Lino Jannuzzi, graziato da Napolitano. Guareschi credo che fu l’unico a scontare davvero una pena detentiva anche abbastanza lunga. Diciamo che il problema del carcere per i giornalisti in Italia sarà anche urgente ma non proprio urgentissimo...

QUERELE TEMERARIE. Il sindacato chiede una legge che ponga fine alla querela facile. Da parte soprattutto dei politici, dice. Aggiungerei: dei Pm. Io per esempio mi trovo oberato dalle querele dei Pm. E la differenza tra una querela di un politico e una querela di un Pm è questa: con un politico vinci al 99%. Con un Pm perdi al 100%. Potremmo in effetti dire che i politici sono temerari e i Pm no. I Pm hanno molto meno da temere dalle sentenze dei loro colleghi... Resta il fatto che il problema esiste. Oltretutto se ti querelano, anche se vinci, devi spendere un sacco di soldi per sostenere il processo. Nessuno te li ridà, dopo l’assoluzione. E un giornalista attivo spesso riceve querele. E ogni querela è un forte colpo finanziario. Io ne ho collezionate circa 100 e sono abbastanza preoccupato... Su questo punto credo che il sindacato abbia ragione. Anche perché i giornalisti che lavorano per i grandi giornali sono coperti dall’editore. I giornalisti più deboli non sono coperti da nessuno.

INTERCETTAZIONI. Recentemente Antonello Soro, che è il presidente dell’autorità sulla privacy, ha spiegato ai giornalisti che le intercettazioni sono uno strumento inventato per aiutare l’attività di investigazione della magistratura e non per aiutare l’attività editoriale. È un concetto semplice e chiarissimo. Che però ha mandato su tutte le furie il sindacato dei giornalisti il quale, evidentemente, immagina il contrario. Cioè pensa che le intercettazioni siano uno strumento giornalistico.

Su questo equivoco occorrerebbe un chiarimento. Secondo me i giornalisti dovrebbero essere i più accaniti nel chiedere che sia stabilita l’impossibilità di usare le intercettazioni. Perché le intercettazioni distruggono il giornalismo. Gli tolgono ogni autonomia. Lo rendono subalterno ad altri poteri: quello della polizia o quello del Pm. I giornalisti perdono la loro dignità, diventano più o meno camerieri di magistrati e poliziotti. Non hanno più niente a che fare con la natura del loro mestiere né, certo, con il rango di intellettuali che avevano una volta.

Tanti anni fa, quando il giornalismo giudiziario non era il cuore del giornalismo ( contavano molto di più il giornalismo politico, quello culturale, quello sociale, quello sindacale...) esisteva una categoria di giornalisti molto disprezzata ( ne ho scritto qualche giorno fa a proposito della sentenza- Minzolini). Li chiamavamo, un po’ snobisticamente, “le buste gialle”. Perché loro ricevevano delle veline dalla Questura o dalla Procura, chiuse in delle gradi buste di carta gialla, e le ricopiavano. Esattamente come fanno oggi molte grandi firme, giornalisti di prima fila, i quali però non vengono più chiamati “buste gialle” ma “giornalisti di inchiesta”. Anche se l’inchiesta non l’hanno fatta loro ma l’ha fatta il Pm dal quale loro dipendono. Una volta l’inchiesta la faceva Gianpaolo Pansa, o Giorgio Bocca, e scarpinavano, e cercavano le notizie, e parlavano con centinaia di persone, e intervistavano. Oggi ricevi la “pennetta” ( non è più una busta di carta) la infili nella presa Usb del computer e con un gioco di tastiera la metti in pagina così com’è, senza neanche riordinare i congiuntivi...

Ecco i giornalisti che credono in questo lavoro ( e ce ne sono, sono a migliaia, ma vengono tenuti in seconda fila dagli editori, che preferiscono le “buste gialle” oppure l’esercito di precari per la manovalanza) dovrebbero scendere in piazza loro e gridare: «Ma quale legge bavaglio? Noi vogliamo una legge che davvero ponga fine al giornalismo da 007 di provincia. Un giornalismo che faccia tornare protagonisti i giornalisti veri. Che esalti le loro doti e non la loro capacità di sottomissione. Come in Francia, in Germania, in America...»