Quest’estate abbiamo scoperto che gli scrittori under 40 non hanno letto Musil, figurarsi se l’hanno letto i commentatori compulsivi, che, essendo sempre su Facebook, non leggono mai.

Ecco, L’uomo senza qualità è un libro in cui, tra una trattazione storico- filosofica e l’altra, si racconta la vicenda di Moosbrugger, assassino seriale su cui il narratore e la giustizia del tempo non finiscono di arrovellarsi: è o meno capace d’intendere e di volere un uomo che quando vede le donne, certe donne, non riesce a trattenere l’impulso di ucciderle? Moosbrugger diventa così l’eroe nero di alcuni personaggi femminili del romanzo, come ad esempio Clarisse, che ne sogna la libertà e la redenzione se non altro per compiacere Ulrich, il protagonista così appassionato al caso.

Ci ho pensato in questi giorni di feroci polemiche sui social in cui non mi sentivo di sostenere incondizionatamente ed empaticamente il ruolo, in quanto donna, di “vittima” e mi veniva piuttosto da pensare al ( presunto) carnefice, che qui d’ora in avanti chiameremo W. E non per costruirgli una leggenda romantica attorno, tanto più che non è nemmeno lontanamente paragonabile all’assassino musiliano, non solo per l’entità del capo d’imputazione, ma anche perché non mi pare sia reo confesso né che la giustizia lo abbia già condannato.

Lo chiameremo W. solo per restituirgli, con l’indeterminatezza del nome, anzi cognome, puntato, la dignità giuridica di persona meritevole del beneficio del dubbio, come tutti gli impu- tati ( o accusati) a tutte le latitudini o quasi, fino a prova contraria.

La mia posizione è scomoda tanto quanto quella di chi giudica Moosbrugger in Musil. Ci si trova di fronte un uomo, un uomo come tanti, con le sue deviazioni alternate a lucidità e comportamenti comuni: com’è possibile che sia stato crudele al punto da assassinare delle povere donne? Queste donne, si dice a un certo punto, lo irritavano. Giravano di notte, lo stuzzicavano. Lui non voleva saperne, e loro insistevano. A quel punto, lui uccideva. Questo a Musil serve a suggerire al lettore che l’irritazione provocatagli da quelle donne valesse come attenuante? Nessuno lo pensa, mentre legge il romanzo.

La letteratura, si sa, è il campo in cui si osa, a partire dalle origini classiche. Nella tragedia greca si va a letto con le madri, si ammazzano i padri e i figli. E siamo tutti a com-muo-ver-ci, in teatro, dopo duemila anni e passa, mentre si autodenunciano, gli eroi pentiti o disperati, Medea accecata dalla gelosia, Oreste che non trova pace per essersi macchiato, del sangue materno, queste mani, le mie.

E non vale solo per la letteratura antica: pure quella moderna è piena di personaggi immorali. Peggio ancora quando arriva l’autofiction, per cui il protagonista si chiama con lo stesso nome scritto in copertina e non sappiamo più quanto l’autore ne stia prendendo le distanze ( succede al Mozzi de Il male naturale come al Siti di Troppi paradisi o dell’ultimo romanzo). Anche Carrère, ne L’avversario, si è posto il problema: lo scrittore non giudica, come la massa che legge la cronaca nera e ne parla con un misto di raccapriccio e di sollievo. Il mostro è isolabile, riconoscibile, infine punito, in ogni caso lontano, diverso da noi, altro. Entriamo, sembra dire invece Carrère, nelle ragioni perfettamente umane di un’azione riprovevole come quella di uccidere figli e moglie. La vita vera non è letteratura, si obietterà, dunque non c’è confronto tra le pagine di un romanzo e quello che sta capitando oggi a W.

Cosa gli sta capitando? In sintesi: una serie di attrici, vent’anni dopo i fatti, denuncia, anzi, no, racconta ai giornali di aver subito abusi da lui, nel frattempo passato, come dice una delle principali accusatrici, «da produttore numero 3 a numero 200 del mondo». Noi non eravamo in quelle stanze d’albergo, in quegli ascensori, a quei festival, non l’abbiamo visto in accappatoio, non siamo stati molestati o ricattati da lui ( né da tutti gli uomini di cui tutte le donne, sui social, si confessano a posteriori assediate o infastidite). Quindi rimaniamo a quello che ne scrivono i giornali. Che, com’è noto, non testimoniano e basta, ma ricostruiscono, interpretano, così come la letteratura finge, immagina, estremizza, spostando di volta in volta il limite del possibile e potendo arrivare a difendere un assassino seriale.

Non sono un giudice, non sono nemmeno Musil, ma scrivo romanzi. Uno dei miei romanzi s’intitola Sotto e parla dei rapporti di potere e delle dinamiche di relazione uomo- donna all’interno di un sistema gerarchico come l’università. La mia non era una denuncia di comportamenti precisi e non aveva personaggi à clef: non desta clamore la riflessione senza scandalo, senza nomi, senza facce. Gli uomini calati nei ruoli specifici condannano o, se del caso, riabilitano; gli scrittori hanno come specifico di calarsi nell’umano in tutti i suoi aspetti, anche i meno presentabili e difendibili.

All’attenuarsi del clamore, dell’odor di scandalo, del “dagli all’untore”, qualcuno, forse, darà voce a W., che da un giorno all’altro viene additato come “mostro”: d’improvviso tutto cambia, per lui, i ringraziamenti di rito per gli Oscar diventano accuse di molestie o peggio ( perché nella confusione livellante dei media il capo d’imputazione si confonde con la violenza sessuale, lo strupro).

Dopo decenni di vita fortunata e successo planetario, il suo volto e il suo nome si fanno sinonimi di oltraggio alle donne, contro di lui si combatte una battaglia antica e velleitaria: il sogno di trasformare tutti gli esseri umani in persone perbene, che non danno mai noia ai propri simili e vivono nell’armonia universale, senza accappatoi sbottonati e sguardi predatori. E siccome il W. letterario sarà idealista ( o moralista a sua volta) si chiederà, a un certo momento della storia: perché non è un magistrato a giudicarmi, ma la pubblica opinione, fatta di persone che nelle loro vite sono violente, sgarbate, evadono le tasse, si approfittano dei sottoposti, li fanno lavorare senza paga. Il mondo è pieno di aberrazioni e di soprusi ma a loro interesso io, i miei comportamenti deviati, la mia sessualità compulsiva. Chi mi condanna è più ossessionato di me, a partire da quelle donne, entrate sulle loro gambe nelle mie camere d’albergo, con lo sporco segreto custodito per anni.

Intanto, mentre W. conciona e qualcuno, forse, si prepara a scriverne la storia, chi nei social non difende e non giudica ma semplicemente dubita, fino a prova contraria, si taccia di misoginia, fallocentrismo, istigazione al femminicidio. Perché il processo in rete prevede solo aut aut: con Asia o con Mammona.

Ma ci sarebbe anche Musil, ad averlo letto.